Nona Vita – Khotan

La Nona Vita di “The Gospel according to All”. Lui e Lei attraversano il deserto di Taklamakan nel III secolo d.C.

The Gospel according to All – Nona Vita

Khotan, III secolo d.C.

taklamakan

I.

Avevo nove anni, quando il mercante giunse da ovest. Viaggiava lungo la rotta commerciale, costeggiando il deserto di Taklamakan sul dorso di un cammello spelacchiato.
Avevamo appena finito di dare da mangiare alle capre, poi ero andata con mia sorella a prendere l’acqua al vecchio pozzo. Mia madre mi aveva promesso la crema di miglio, ma ancora non si era messa a cucinare.

Quando arrivò il mercante, eravamo già tutti fuori dalla casa. Mio padre corse ad accoglierlo, come faceva con ogni visitatore. La nostra era l’unica fattoria prima del villaggio di Melikawat, e anche se non poteva offrire le prelibatezze di Khotan, la nostra ospitalità era sempre stata apprezzata dai viandanti.

Il mercante non aveva molto con sè, a dir la verità. Portava dentro le sacche qualche attrezzo intagliato nel legno, drappi di Kashgar, vasellame e un paio di pergamene in una lingua sconosciuta. Non sembrava molto ricco, poiché vestiva miseramente, ancor più di mio padre, che indossava l’abito buono solo per andare al mercato di Melikawat. Parlava a fatica la nostra lingua, ma ciò non ci spaventava. Tutti erano i benvenuti da questa parte del deserto, soprattutto se erano mercanti.

“Cerco ospitalità per la notte.” disse, con un sorriso cortese.
“La avrai. – rispose mio padre – Khotan è ancora lontana, e il deserto non accoglie volentieri gli stranieri.”
“Vi offrirò parte della mia mercanzia a prezzo di favore, se così vi piace.”
“Le tue merci non sono di alcuna utilità per noi, mercante, a meno che tu non trasporti pioggia.”
“Non ho mai avuto questa fortuna.”
“Allora ci accontenteremo delle tue storie.”

Mia madre ci preparò uno stufato e la crema di miglio che mi era stata promessa. Mio padre lavorò nei campi per tutto il pomeriggio, mentre mio fratello tornò con il gregge prima del tramonto. Mia sorella rimase tutto il tempo ad aiutare in cucina, troppo timorosa per avvicinarsi allo straniero; come ogni volta in cui c’erano degli ospiti, stava con il capo basso e sfuggiva il loro sguardo, coprendosi il volto con i capelli.

Io, invece, ero affascinata da quell’uomo, venuto da chissà dove. La sua pelle era più scura della nostra, gli occhi più grandi, il naso più largo. Poteva essere un mercante di Kashgar, o forse un abitante di quegli strani paesi che avevo sentito soltanto nelle storie dei viaggiatori. Era molto alto, e sorrideva sempre. Lo spiai mentre si lavava con una tinozza, nel cortile della fattoria: aveva una profonda cicatrice lungo l’addome e dei capelli ricci e scurissimi, più belli di quelli di mio fratello.

Mio padre mi sgridò, quando mi trovò a spiarlo. Anche se ero la più piccola della famiglia, dovevo aiutare gli altri, poiché il deserto non aveva rispetto di chi stava fermo ad aspettare. Mi colpì con forza, con quelle sue mani grandi e sporche.

Durante la cena non riuscii a togliere gli occhi di dosso al mercante. Lui mangiava lentamente, come se non avesse paura del deserto alle sue spalle o del viaggio che ancora gli rimaneva da percorrere. Mangiava, e mentre mangiava raccontava.

Ci raccontò di un impero lontano, dove gli schiavi combattevano nelle arene per soddisfare la sete di sangue dei loro padroni; ci raccontò di mummie raggrinzite nascoste sotto piramidi smisurate perdute in deserti di fuoco. Ci raccontò di battaglie e di amori, di fiumi e di foreste, di città e di campagne, di uomini e di donne.

Ci raccontò dei suoi viaggi e dei commerci lungo la via della seta, ma nessuno di quei racconti era all’altezza di ciò che ancora gli rimaneva da scoprire. Il mercante non era più giovanissimo, ma sembrava avere davanti a sè una vita senza fine, sempre in viaggio da un impero a un altro, da un villaggio a un altro, da un amore a un altro.

La mia famiglia non diceva nulla. Ascoltavano i racconti dello straniero, mentre il fuoco crepitava nel camino e le ombre notturne calavano lungo il deserto. Rispondevano lentamente con i ricordi di un mercato a Melikawat, con il matrimonio di un lontano cugino o con le fatiche tra i pascoli sulle colline.

Il mercante ascoltava a sua volta, e sorrideva. Quando non ebbe più racconti da donarci, in cambio di quella misera ospitalità, si mise a fumare dell’oppio in cortile. Noi ci coricammo presto, perché un altro giorno di lavoro ci aspettava.

Il giorno successivo il mercante partì di buon mattino. Io avrei dovuto curare i gelsi e preparare il cibo per le capre, ma mi sentivo molto triste. Andai a salutare lo straniero prima che scomparisse dietro le dune del deserto.

“Non andare.” gli dissi.
“Perchè, piccola? Non posso stare qui.”
“Perchè?”
“Devo continuare il mio viaggio. Non posso stare fermo.”
“Ma noi siamo qui. Da sempre.”
“Le cose cambiano. In continuazione. Non posso stare qui, non fa per me. Devo continuare.”

Il mercante sorrideva, ma io non capivo. Mio padre era sempre vissuto nella fattoria, e anche suo padre prima di lui. Mio fratello una volta era stato a Khotan, per presentarsi alla sua promessa sposa, ma anche lei sarebbe venuta ad abitare in questa fattoria. Solo i mercanti potevano vivere viaggiando, a differenza nostra.

“Voglio venire con te!” gli dissi, stringendo i pugni.
Lui mi accarezzò i capelli, poi scosse la testa.
“Sei troppi piccola.”
“Come faccio a scoprire tutte quelle meraviglie che ci hai raccontato, se rimango qui? Come faccio a conoscere tutte quelle persone, tutte quelle storie?”
“Non è necessario muoversi, per capire il mondo.”
“Ma io sono costretta a stare qui!”
“No, piccola. Io devo muovermi, perchè sono costretto. Tu non lo sei. Sei tu quella fortunata, tra noi due. Un giorno capirai.”

Io gli misi il broncio. Nonostante le sue belle parole e i suoi dolci sorrisi, non era affatto convincente. Lui prese qualcosa dal suo sacco.
“Puoi spostarti anche rimanendo ferma. Vedi?”
Era una trottola di legno.

“Rimane sempre nello stesso posto, ma gira. Gira, gira, gira. Cade a terra soltanto quando smette di girare.”
Io non capivo. Il mercante mi regalò la trottola, quindi diede una pacca al suo cammello spelacchiato. Ripartì alla volta di Khotan, lungo la via della seta, con un sorriso in faccia e tante storie da raccontare.


 

II.

Avevo tredici anni, quando i predoni giunsero da ovest. Una nube si sollevò dal deserto, mentre i cavalli galoppavano verso la nostra fattoria. Non dovettero attendere la notte, per attaccarci. La lancia di mio padre non poté nulla contro le spade dei tocari.

Erano in venti, con le barbe lunghe e i capelli sporchi. Portavano i tesori saccheggiati nelle oasi lungo la via della seta, teste di uomini mozzate e turbanti colorati. Urlavano in una lingua che non era la nostra, ma ricordava quella dell’impero Kushan. Le loro spade infilzarono il corpo di mio padre, prima ancora che potesse tentare di accoglierli con la sua ospitalità.

Il villaggio di Melikawat era lontano, e nessuno poteva aiutarci. Mi madre gridava e piangeva, mentre i cani abbaiavano furiosamente. I predoni uccisero anche le bestie, poi circondarono la fattoria.

Mio fratello e sua moglie vennero presi mentre tornavano dai pascoli e furono sgozzati senza pietà nel cortile. Le capre provarono a scappare via, ma molte vennero catturate dai predoni per il banchetto serale. Mia madre cercò di sbarrare le porte con delle assi, ma venne centrata in piena fronte da un dardo di balestra.

Io gridavo e piangevo, senza poter far nulla. Osservavo la mia famiglia che veniva massacrata, aspettando il mio turno, imponendomi di non dimenticare.

Mia sorella, che aveva sempre avuto timore degli stranieri, non si spaventò. Allentò un’asse di legno dalla cucina, che rivelò un piccolo incavo tra le scale per la cantina e il pavimento.

“Nasconditi qui!” mi disse.

Io non riuscivo a smettere di piangere. Lei mi spinse nel buco, strattonandomi con forza. Poco più di un metro di lunghezza, e qualche centimetro di larghezza. C’entravo a malapena, sdraiandomi di lato e piegando le gambe.

“E tu?” le chiesi.

“C’è posto solo per te. Tu sei più piccola. Non ti vedranno, se rimani nascosta.”

“Nasconditi anche tu!”

“Non posso. Mi hanno vista.”

“Ma…”

“Tu sei piccola. Salvati, e ricorda.”

Mia sorella richiuse l’asse di legno sopra di me. Il buco era pieno di ragni e di terra. Mi lamentai, piagnucolando il nome di mia madre.

“Fai silenzio, o ti troveranno! Devi stare zitta, e immobile. Non ti muovere. Non ti muovere finchè non se ne saranno andati.”

Obbedii. I predoni sfasciarono la porta e sciamarono dentro la casa come locuste affamate. Non vidi cosa successe, ma sentii le grida di mia sorella. La uccisero molte ore dopo.

Nel buco non faceva freddo, ma soffrivo. Le gambe attorcigliate, il petto costretto, la gola riarsa. Morsi la terra per non ansimare. Dalle fessure tra le assi filtrava il sangue delle capre e l’urina dei predoni. Rimasi in silenzio, immobile.

Rimasero nella nostra fattoria per tre giorni. Saccheggiarono i vasi di terracotta, le provviste, persino i nostri giocattoli. Distrussero le piante di gelso e i recinti di legno. Banchettarono fino a tarda notte, mentre mia sorella piangeva e gemeva, e io rimasi immobile tra i ragni e la terra.

Il terzo giorno ripartirono verso est, portandosi dietro le capre rimaste. Io provai ad uscire dal buco, ma non mi sentivo più le gambe. Riuscii ad alzare l’asse con la testa, mentre un’esplosione di dolore mi percorreva tutta la schiena. Mi trascinai fuori, annaspando.

Non feci neppure caso al corpo nudo di mia sorella sul tavolo, o al cadavere di mio padre infilato nel camino. Strisciai fino al pozzo e bevetti per ore, gemendo e piangendo.

Ero rimasta ferma, ed ero viva.


 

III.

Avevo trentadue anni, quando la carovana giunse da ovest. Attraversava lentamente la rotta commerciale, con i cammelli e le carrozze, le spezie e i tappeti. I cavalieri sorvegliavano il percorso, mentre le donne velate osservavano il deserto.

Io mi sedetti sulla soglia della porta, attendendo il loro arrivo. Come ogni volta, avevo ripulito la fattoria e indossato l’abito buono. Avevo preparato i tappeti, i drappi, i vestiti e le corde di seta.

La carovana si fermò di fronte alla mia fattoria, e i mercanti si abbeverarono al vecchio pozzo. Le donne accompagnarono i bambini a guardare i bachi da seta. I cavalieri pulirono le loro armi e strigliarono i cammelli.

Attesi con pazienza l’arrivo del capovillaggio, che spuntò un’ora più tardi dalle dune a est. Un uomo alto e slanciato, poco più giovane di me, con i corti capelli a spazzola e il naso adunco. Portava la merce di Melikawat per gli scambi commerciali, conducendo due cammelli dal pelo fulvo. Mi salutò e mi baciò sulla fronte. Portava con sè il miglior vasellame del villaggio e alcuni frammenti lavorati di giada di nefrite.

“Avete già cominciato?” mi chiese.
“No. Ti stavo aspettando.”
“Sbrighiamoci, allora. Prima che partano per la prossima oasi.”

Annuii. Il capovillaggio si avvicinò ai mercanti, che stavano allestendo il loro accampamento vicino alla mia fattoria. Alcuni uomini dalle vesti colorate di rosso e di azzurro si avvicinarono a loro volta, parlando faticosamente la nostra lingua.

I mercanti avevano origine araba, forse avevano visto addirittura le grandi piramidi o le milizie romane. Discutevano animatamente, cercando di contrattare sul prezzo e sul valore delle merci. Raccontavano di grandi bazaar e di porti affollati, di lingue, culture e religioni straniere, di amici e parenti che li aspettavano alla fine del viaggio.

Il capovillaggio riuscì a vendere il vasellame e a scambiare la mia seta per frutta, spade e denaro. Al termine delle trattative, i mercanti festeggiarono con della birra ambrata e dolciastra, e ci offrirono dei datteri e del pane.

Lavorai per tutta la sera, curando le piantine di gelso e portando le foglie ai bachi da seta. La carovana ripartì qualche ora dopo, prendendo la via del deserto verso l’oasi successiva. I bambini salutarono ridendo, mentre le donne si riparavano sotto i parasole.

Il capovillaggio rimase con me per tutta la notte. Mi aiutò a riparare il telaio e ad accendere il camino. Poi mi baciò e mi accarezzò.

Ormai da molti mesi era solito farmi visita durante le spedizioni commerciali. La mia fattoria, senza più capre e senza più campi, era comunque un punto di passaggio per le carovane che viaggiavano verso Khotan. La seta mi aveva permesso di vivere da sola, senza abbandonare la terra e il ricordo della mia famiglia. Sopravvivevo, e ricordavo.

Quella notte, però, il capovillaggio non sembrava sereno.
“Voglio andare a Khotan.” mi disse, quando il manto stellare aveva ricoperto il deserto.
“Perchè?”
“Voglio viaggiare. Come quei mercanti. Voglio lasciare il deserto.”

Io non dissi nulla. Mi limitai a preparare il tè con le foglie di gelso.
“Il viaggio è pericoloso. Più del deserto.”
“Sì, lo so – rispose lui – Ma non si può rimanere prigionieri del passato. Voglio crescere. Voglio diventare il protagonista dei racconti dei mercanti.”
“Una pianta cresce dove si posa il seme. Ha radici, non gambe.”

Il capovillaggio annuì lentamente. Ma non mi guardò negli occhi. Continuò a guardare il sentiero che si snodava tra le dune e le colline. La via della seta, che collegava mondi così lontani e percorreva leggende e fantasie, sogni e speranze.
“Verrai con me?” chiese, sorseggiando il tè.

Io scossi la testa.
“Qui c’è la mia seta. C’è la mia fattoria. C’è la mia vita.”
“Non devi restare.”
“Voglio restare. Quando sarai in viaggio, avrai bisogno di trovare altre donne come me, nelle fattorie ai margini del deserto. Avrai bisogno di trovare ospitalità, di trovare conforto, di trovare piante con radici salde.”

Il capovillaggio annuì di nuovo. La mattina dopo ripartì di buon ora, caricando tutte le merci sui cammelli. Mi diede un bacio e mi salutò. Non lo vidi mai più.


 

IV.

Avevo cinquantasei anni quando la donna giunse da ovest. Era una donna che viaggiava da sola, senza cavalli nè carovane, senza mercì nè provviste. Portava una spada smussata al fianco e dei coltelli alla cintura.

Io la accolsi con una brocca d’acqua, perché temevo che si fosse smarrita, o che soffrisse di qualche malattia. Lei, però, non aveva sete. Aveva dei modi gentili e cortesi, ma parlava poco. Forse non capiva bene la nostra lingua. Aveva degli splendidi capelli corvini, raccolti in una lunga treccia, e un diadema di bronzo sulla fronte. La sua pelle era chiara come la nostra, ma i suoi lineamenti erano stranieri. Indossava una pelliccia marrone sopra gli abiti di seta, come se non avesse alcun timore del deserto.

“Sto cercando un mercante.” mi disse.
“Qui ne passato in continuazione, mia signora. Sia verso Khotan che verso Kashgar.”
“No. Stava fuggendo verso est.”

La donna mi descrisse i lineamenti dell’uomo. Pelle scura, naso largo, cicatrice sul ventre. Era un uomo che non avrei mai potuto dimenticare. Anche adesso che faticavo a ricordare i nomi dei miei familiari e delle bambine, anche adesso che la mia memoria non era più quella di una volta, non avrei mai potuto dimenticare quell’incontro.

“Lo conosco, mia signora. Ma sei arrivata in ritardo di quasi cinquant’anni.”
“Soltanto cinquant’anni, quindi.”
“Soltanto? È il tempo di una vita.”
“Sì. Il tempo di una vita.”

Le offrii un tè di gelso, e lei accettò volentieri. Si mise a sedere accanto al vecchio pozzo, attendendo che finissi i miei lavori quotidiani. La mia schiena era curva, le mie gambe stanche, e non ero più precisa come un tempo a tessere la seta.

Passai tutto il pomeriggio a insegnare alle bambine a utilizzare il telaio, a curare le piante e a nutrire i bachi. Già da molti anni le bambini di Melikawat facevano visita alla mia fattoria, tra una spedizione commerciale e un’altra, assieme ad alcuni genitori e a un paio di guardie cittadine. Insegnavo loro a tessere la seta, ad accudire i mariti e a riconoscere le origini dei mercanti di passaggio. Le bambine apprendevano rapidamente, con la curiosità e l’incoscienza tipica della fanciullezza. Ogni volta che una carovana si fermava di fronte alla mia fattoria, assistevano i genitori negli acquisti e tornavano al villaggio.

Alla ragazza più grande, una splendida fanciulla slanciata dalle trecce rossastre e dal viso lentigginoso, mi piacerebbe lasciare la fattoria, quando sarà il momento. Le avevo già insegnato ad assegnare i prezzi alla seta e a difendersi con il coltello dai mercanti troppo impudenti. Le avevo già insegnato a rispettare la via della seta e a tenersi alla larga dal deserto di Taklamakan, poichè chi ci entrava non ne usciva più.

Quando giunse la sera, le bambine si misero a dormire e le guardie si fermarono a piantonare l’ingresso della fattoria, con le lance in pugno. La donna mi aveva atteso fino a quel momento, con lo sguardo fisso al deserto e la tazza di terracotta in mano.

Fu soltanto al tramonto che la riconobbi per ciò che era. Non era un mercante, nè un predone, nè uno di quei buddisti tibetani che venivano a conquistare le nostre oasi. Non era mia sorella, non era la figlia del capovillaggio, non era una bambina.

Quella donna aveva percorso in continuazione la via della seta, verso est e verso ovest, per ogni giorno di ogni anno. Aveva sempre percorso ogni strada, in mezzo ai mercanti e ai viaggiatori, ai preti e ai filosofi, ai contadini e ai cavalieri. Mi aveva soltanto sfiorato, in tutti quegli anni, passando di fronte alla fattoria. Solo stavolta si era fermata ad aspettarmi. Solo stavolta era venuta per me.

I suoi modi erano gentili, ma il suo sorriso era triste.
“Come stai?” mi chiese.
“Come può stare una vecchia.”

La donna bevve un ultimo sorso di tè, poi appoggiò la tazza a terra.
“Sono abbastanza grande per morire?” le chiesi.
“Non si è mai abbastanza grandi.”

Tirò fuori dalla tasca una piccola trottola, intagliata nel legno. La fece ruotare sul ciglio del pozzo, sopra le pietre. Non so se fosse la stessa trottola che mi aveva regalato il mercante e che i predoni avevano saccheggiato.

La trottola girava, girava, girava.

La donna mi strinse la mano, con gentilezza. Sorrisi.

Quando la trottola cadde a terra, spirai di fronte al deserto.

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