Storia Breve di un autogrill Pavesi

Per me era semplicemente la Pavesi. Più che un autogrill, era un pezzo di mondo straniero piantato in mezzo alla campagna, come un’astronave atterrata tra i campi di grano. Perché le cose assumono un altro aspetto, se le guardi da un’altra prospettiva.

Per tutti coloro che sono abituati a viaggiare lungo la rete autostradale, gli autogrill sono gli alleati più apprezzati quando si ha bisogno di un caffè, una tappa al bagno o riempire il serbatoio di carburante. I punti di ristoro a ponte, che coprono entrambe le corsie con architetture sopraelevate, sono uno dei simboli delle nostra autostrade, dei centri commerciali in miniatura a uso e consumo degli automobilisti, aperti anche la notte, durante tutti i giorni dell’anno.

Ma questa è un’immagine ben conosciuta da chi vive gli autogrill lungo l’asse verticale, ovvero per chi viaggia lungo l’autostrada e li incrocia a cadenza sempre più stretta. Per chi invece li guarda da un’altra prospettiva, lungo l’asse orizzontale, assumono tutto un altro aspetto.

Ho vissuto per quasi vent’anni nei pressi di un autogrill. Il ristoro a ponte “Montepulciano”, realizzato nel 1967 dalla catena Pavesi e progettato dall’architetto Bianchini. Per me e per gli altri, era semplicemente la Pavesi.

Non era un punto di passaggio, anzi. Era un punto fisso, sempre presente nel paesaggio, un palazzone simbolo del boom economico italiano che svettava tra i campi coltivati e le case dei contadini. Lo vedevo dalla finestra della mia cameretta, con l’insegna luminosa tra le fronde degli alberi e il cavalcavia che superava l’autosole. Le macchine che viaggiavano lungo l’A1 erano un rumore continuo ma sommesso, che accompagnava il sonno notturno, con le luci dei loro fari che sfrecciavano lungo le paratie di cemento.

Per me che abitavo lì,proprio a due passi, la Pavesi era parte del paesaggio, parte integrante della visione del panorama. Anche se era un altro mondo, fatto di viaggiatori stranieri, di persone che sostavano per pochi minuti, di realtà frenetiche che nulla avevano a che spartire con il paesino di Montepulciano Stazione e la realtà rurale che lo circondava.

Come un molo, una stazione, un aeroporto: la Pavesi era un non-luogo, un posto di passaggio che non viene ricordato da chi lo frequenta, ma soltanto da chi vive nei suoi pressi.

Per me era impossibile avere un’esperienza della Pavesi uguale a quella degli altri. Tutti gli altri vi si fermavano per una sosta durante il viaggio in autostrada, ma per noi abitanti del paese la situazione era diversa. Se dovevamo andare verso sud, prendevamo l’A1 al casello di Chiusi; se dovevamo andare verso nord, al casello di Bettolle. In entrambi i casi, l’autogrill di Montepulciano rimaneva nel mezzo, fuori dalla nostra rete stradale. Gli altri vi accedevano con l’auto, noi con i piedi. L’autostrada era lì, a due passi da casa, ma gli accessi per le auto più vicini erano a venti minuti di distanza, mentre la Pavesi rimaneva un’astronave aliena che non apparteneva alla stessa esperienza di viaggio di tutti gli altri.

Le mie soste alla Pavesi erano diverse da quelle degli altri: eravamo nello stesso posto, ma venivamo da mondi diversi, da prospettive diverse.  Gli altri si fermavano per una pausa di viaggio verso Roma, Milano, Firenze o Napoli, arrivando dalla strada. Io arrivavo dai campi, e mi fermavo a prendere un pezzettino del mondo diverso da quello del paese. Perché la Pavesi era aperta tutte le notti e tutte le festività, era il posto sicuro in cui trovare un caffè, una sigaretta o dei frammenti di umanità, a qualsiasi ora del giorno.

Con quella tipica scalinata di ferro con i tappetini di gomma, il corridoio lungo e stretto e la vetrata che lasciava osservare il traffico, accoglie i visitatori da cinquant’anni. È rimasta la stessa, nonostante tutto, mentre il mondo intorno cambiava.

La Pavesi era un pezzo di mondo che vedevo alla televisione trapiantato in mezzo alla campagna, un artefatto fuori contesto, ma che con le sue luci sfavillanti offriva uno squarcio di modernità a cui potevo accedere da un’altra direzione. Una direzione che non era quella consueta, ma che era figlia di un’altra prospettiva, l’antitesi stessa del viaggio per cui era stata pensata.

La Pavesi era dietro casa mia. Di fronte avevo il viale alberato, l’ingresso, e poi i campi e le strade verso il centro del paese. Dietro avevo il cortile con gli animali, le rimesse agricole e i vitigni. E poi la stradina che conduceva all’autogrill, grazie a un accesso per gli addetti ai lavori, fino al benzinaio e alla tipica scalinata. Per me l’ingresso alla Pavesi non era l’A1, simbolo dell’Italia del boom economico, ma una stradina semiasfaltata per i campi, in cui d’estate si vedevano le lucciole e si potevano cogliere le more.

Era lo stesso mondo in cui vivevano gli altri, ma con una prospettiva completamente diversa. La stessa prospettiva in cui si trovava il fratello di mio nonno, uno degli ultimi contadini a uscire dal sistema della mezzadria, catapultato a fare il benzinaio proprio lì alla Pavesi, incontrando tutti i frammenti di umanità che attraversavano l’A1 dietro casa nostra. E i suoi racconti sulle coppie di scambisti, sui sacerdoti che nascondevano la droga sotto la tonaca per portarla a Città del Vaticano, sulle persone che si fermavano per una sosta lungo il viaggio, erano più che degli aneddoti verosimili: erano l’incontro tra due mondi che viaggiavano su piani differenti e si incontravano in maniera dirompente, come un’astronave aliena atterrata in mezzo ai campi.

Perché quella è stata la Pavesi, per chi dalla vita rurale ha conosciuto il mondo globale in meno di una generazione: l’astronave dietro al cortile di casa, lo squarcio di mondo in cui eravamo destinati a entrare, la profezia di un avvenire che stava per raggiungerci.

E mentre gli automobilisti sfrecciavano lungo l’A1, fermandosi alla Pavesi per un caffè distratto, io coglievo le more nei cespugli ai lati dell’autogrill e contavo le lucciole sotto il sole estivo, salendo la loro stessa scalinata di ferro per un momento di ristoro.

Mondi che si incontravano senza mai collidere, la velocità del viaggio urbano contro il lento incedere della campagna, tutti nello stesso posto, tutti con la nostra umanità.

Per me era semplicemente la Pavesi, un luogo che era fuori dal mondo. Ma, forse, di quello stesso mondo era anche il centro. Perché ogni cosa assume nuovi aspetti, se la guardi da un’altra prospettiva.

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