Storia breve di una canzoncina allegra

È la solitudine a farci del male, anche quando vogliamo stare da soli. Anche in quelle situazioni in cui è necessario rimanere isolati, per concentrarsi, studiare o lavorare lontani dalle distrazioni.

A Sinalunga ho vissuto per quasi due anni, tra il 2008 e il 2010. In quel periodo avevo lasciato Siena per tornare in Valdichiana: stavo finendo l’università, mi mancava soltanto la tesi e avevo intenzione di lavorare sul tema della mezzadria in Valdichiana. Era una tesi di antropologia economica sul destino lavorativo e familiare dei mezzadri nel secondo dopoguerra, gli anni in cui la civiltà contadina si è dissolta e si sono create le basi per la società in cui viviamo adesso; era anche un modo per riscoprire le mie radici, studiando in prima persona la fattoria in cui avevano vissuto i miei nonni e cercando di capire il mondo da cui provenivo. La scelta di andare ad abitare a Sinalunga, dopo circa sei anni passati a Siena, era puramente funzionale e non affettiva: l’affitto del nuovo appartamento costava meno rispetto a Siena e si trovava in posizione strategica tra il posto in cui facevo ricerca sul campo, nel territorio comunale di Montepulciano e dintorni, e la stessa Siena, in cui la mia fidanzata continuava a lavorare come barista.

Trasferirsi a Sinalunga è stato come ritornare in un paese natio in cui non avevo mai vissuto. Avevamo un appartamento nel centro storico, davanti al teatro, tra le viuzze strette in mezzo a tante chiese. Dopo tanti anni a Siena, nel pieno della vita universitaria e delle avventure giovanili, ritrovarsi a Sinalunga era come obbligarsi a crescere tutto d’un colpo. Gli amici erano lontani, le lezioni erano finite.

Sinalunga era un paese tipicamente chianino, ma non era il mio paese. Ero tornato in una terra che conoscevo, ma da cui non ero conosciuto.
Ed ero solo.
La mia fidanzata passava gran parte della giornata al lavoro e tornava la sera. Io studiavo in ufficio oppure andavo in giro per la Valdichiana a intervistare i mezzadri per la mia tesi.
Per la prima volta nella mia vita, mi sentivo solo.

L’infanzia l’avevo passata da figlio unico, è vero, ma in case con cortili comuni e gruppi di parenti, tra cugini, zii e nipoti, che sembravano riproporre il modello della famiglia allargata di epoca mezzadrile. All’università avevo abitato prima con gli amici, poi con la fidanzata, ma sempre in mezzo a una città con tante conoscenze e occasioni per stare in compagnia. A Sinalunga, invece, ero da solo. Per gli amici di un tempo, ero troppo cambiato. Per gli amici nuovi, ero troppo distante.

Ero solo, in un appartamento incassato in un vecchio palazzo in cui l’umidità entrava fin dentro le ossa e faceva ammuffire i libri. Non credo di aver mai sofferto come in quel periodo di problemi respiratori: stavo in ufficio a studiare e a lavorare, con le mura che trasudavano umidità e le campane delle chiese che suonavano a tutte le ore.

E poi c’era quella maledetta canzoncina.
Era una canzoncina allegra, ma mi dava sui nervi.
Ho cominciato a sentirla una mattina, prima ancora che suonasse la sveglia. Mi destai dal sonno con quelle note in testa. La-la-la. All’inizio pensavo che provenisse dalla televisione. Forse l’aveva lasciata accesa uno dei tanti anziani che vivevano nei dintorni. Invece no, era proprio la voce di una donna. Lalla-laa-là. Era una melodia senza senso e senza parole. Seguiva un motivo, poi cambiava tempo e ritmo. Non era una melodia canticchiata a memoria. Erano pezzi di canzoni prese a caso. Lallalà-lallalà.

Cercavo di non farci caso, ma la sentivo in continuazione. La mattina in camera da letto, in ufficio nel pomeriggio, la sera in salotto. Risuonava agli orari più disparati, continuando anche per mezz’ora, poi smetteva, riprendeva in altri momenti del giorno. Era diventata un incubo, non potevo più sentirla. Alzavo il volume della televisione o dello stereo per coprirla, ma quando avevo bisogno di concentrarmi sulla tesi, non poteva scacciarla con una melodia più forte. Lala-lala-lalà. Tutti i giorni, solo in casa, con quella canzoncina che partiva ogni tanto e risuonava per tutte le stanze. Era allegra, sempre allegra. Più che l’umidità, più che lo stress della tesi, era quella canzoncina allegra a mandarmi su tutte le furie.

Un giorno decisi che non potevo più andare avanti in quel modo e che dovevo risolvere la situazione. Lavorare in quelle condizioni era diventato impossibile, avevo l’emicrania che mi trapanava la testa. La-lla-llaà. Avevo intenzione di fare il giro del vicinato, inseguendo la melodia e sbraitare come un pazzo tutto il mio fastidio al responsabile.

Così feci, l’ennesima mattina in cui sentii quei frammenti di melodie che non seguivano un filo logico, l’ennesima mattina in cui non riuscivo a portare avanti al tesi e in cui l’umidità mi entrava dentro le ossa, l’ennesima mattina da solo nel centro storico di Sinalunga.

Uscii di casa e aguzzai l’udito per seguire quei rumori. Feci il giro di tutto l’isolato, ma non riuscii a identificarne l’origine. Allora mi attaccai ai campanelli. Qualcuno doveva pur sapere qualcosa. Il primo tentativo andò male, il vicino non la sentiva neppure. Ma ero sicuro che non fosse un’allucinazione, che non si trattava di una storia di fantasmi. Continuai con il palazzo successivo, su per le scale. Altri due appartamenti, nessuno in casa. Poi, all’ultimo piano, finalmente la trovai. Sentii la melodia provenire da oltre la porta, quella maledetta canzoncina allegra che mi entrava nel cervello più dell’umidità. Lalla-lalla-lallà.

Suonai il campanello, schiumante di rabbia.
Mi aprì un’anziana signora, vestita con l’abito a fiori che le massaie comprano al mercato. Le mancava un braccio. Stava sulla soglia di casa, in attesa che le spiegassi il motivo del disturbo. Non era ostile, come ormai siamo abituati a mostrarci con gli estranei che ci suonano al campanello. Era pronta a parlare.

Sentii la rabbia sparire. Mi sentii debole. Bastarono poche frasi per capire. Era un’anziana signora che viveva da sola e che cantava per farsi compagnia, mentre spolverava. Era senza un braccio, quindi ci metteva molto tempo a riassettare. Suo figlio la andava a trovare soltanto la domenica a pranzo, e lei passava la settimana a preparargli qualcosa di buono da mangiare. Mi accolse con gentilezza e sconfisse la mia rabbia.
Chiuso nella mia stanza, immerso nei miei problemi, non avrei mai pensato che l’autrice di quella canzoncina allegra potesse sentirsi più sola di me.

Non ebbi la forza di fare nulla, non ebbi l’ardire di chiederle di smetterla. Ma da quel giorno, anche se la sentivo, la melodia non mi dette più fastidio.

Terminai la tesi e preparai il trasloco per l’estate successiva. In quelle settimane la canzoncina allegra era diventata un modo per sentirsi meno soli. Prima di lasciare Sinalunga salutai la vicina e le regalai una crostata. Immagino che non l’abbia mangiata subito, ma che l’abbia tenuta da parte per mangiarla in compagnia del figlio.
Perché è la solitudine a farci del male, anche quando vogliamo stare da soli.

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