Storia breve di una strada di campagna

La mia casa cresceva ai margini della modernità. Nella periferia della provincia senese, dove il benessere e lo sviluppo sostenibile si diffondevano a macchia d’olio, ma lasciavano soltanto le gocce a chi stava ai margini. Sempre un passo indietro alla modernità. Sempre un passo indietro al benessere. Sempre un passo indietro alla felicità.

Il nostro non era il tempo del presente. Il presente era la vita altrui. Quella della televisione, quella delle città, quella dei genitori che andavano a lavorare fuori. È questo il tragico destino di una periferia di provincia, che non ha neppure la dignità subumana e suburbana della periferia cittadina, con le sue contro-culture e la sua ansia di riscatto.

Vivere ai confini, tra la campagna del passato mezzadrile e il futuro della campagna urbanizzata: un tempo sospeso tra il passato e il presente, in cui nulla si crea ma tutto si diffonde, in cui ciò che rimane osserva impotente ciò che è di passaggio. Nella periferia della provincia si vive di ciò che hanno creato gli altri, delle briciole dei pasti altrui. La modernità e il benessere si creavano nella città, e venivano lentamente diffuse anche da noi, lasciandoci eternamente indietro di un passo.

Questa era la mia strada di campagna, la mia casa, la mia periferia ai margini della modernità. Sospesa in un luogo dal tempo sbagliato, in cui le lancette scorrevano più lente. Sospesa in uno spazio senza una collocazione specifica, tra le auto sfreccianti dell’autostrada del sole da una parte e i campi coltivati delle fattorie dall’altra.via la macchia

Una strada sospesa tra il ricordo della mezzadria e i sogni di gloria di Montepulciano, in cui la modernità correva a pochi metri, in un’autostrada in cui era impossibile accedere, se non tramite l’autogrill, perchè il casello era troppo lontano. Sempre, comunque, a piedi, non in auto. Sempre un passo indietro.

Ma il cavalcavia era la sede di tante macabre fermate, come un retaggio delle veglie contadine, soprattutto quando un incidente stradale interrompeva il consueto scorrere del tempo. Ci trovavamo in un crocevia tra i mondi. Sempre ai margini di una modernità che, appena riuscivi a raggiungere, ti sfrecciava via davanti agli occhi come quelle automobili sull’A1.

Questa strada era piena di vita. Una strada costruita sulle paludi, sulle campagne, sulle vestigia del passato. Una strada che porta con sè il ricordo dei tempi che furono, con le sue case erette da contadini arricchiti, a mezza via tra la fattoria e il paese, a mezza via tra il passato e il presente. E assieme ai contadini che si trasferivano nelle nuove abitazioni, lasciando le vecchie leopoldine della Fila, venivano i loro miti, i loro riti, le loro paure e le loro speranze.

La casa dei fantasmi, la casa dei pazzi, la casa degli omicidi. Ogni casa aveva la sua storia, una storia che non viveva nelle cronache dei giornali e neppure nelle chiacchiere di paese, ma soltanto nella tradizione orale di chi la strada la viveva e la percorreva. Le paure del presente si sommavano a quelle del passato. Rifiutavamo il passato mezzadrile, anche perchè le nuove generazioni non l’avevano neppure vissuto; ma non eravamo ancora arrivati a conquistarci il paese, non avevamo ancora raggiunto la dignità dei cittadini.

La conquista della città era una speranza, che si rifletteva negli abiti eleganti dei contadini che non volevano far sapere la loro origine. La strada verso il paese era la conquista della dignità della classe media, l’abbandono dell’umiltà contadina.

Ma quella strada non era mai abbastanza vicina al paese. Sempre un passo indietro. Le case dei contadini volevano fingersi villette appartate, ma erano piccoli condomini per famiglie allargate. Nonostante tutto, il passatto mezzadrile resisteva, riproduceva i suoi modelli, le sue forme di adattamento familiare, le usanze del passato e la conseguente visione del mondo.

La mia strada non aveva neppure la dignità della case sparse, come ho scoperto qualche anno più tardi durante i censimenti dell’Istat. La mia strada non ospitava più fattorie, non era un dedalo di capannoni, casolari e campi coltivati. Ma non era abbastanza vicina alla stazione ferroviaria, alla farmacia, al cimitero, al supermercato, ai servizi del centro del paese.

La mia strada non poteva che essere un luogo di passaggio, un momento nel tempo destinato a diventare qualcos’altro, un bozzolo incompiuto. Una via da percorrere: fatta per i viaggiatori, non per i residenti. Tesa verso quel futuro che non raggiungeva mai.

Anche adesso, la mia strada continua a vivere ai margini. Con la chiusura della fabbrica, è sparito uno dei più importanti poli produttivi locali, l’unico motivo per cui il nome della strada appariva nei documenti e nelle fatture del resto d’Italia. Anche gli operai e gli impiegati hanno smesso di attraversarla, così come gli enormi tir che facevano su e giù durante tutta la mia infanzia, a volte finendo addosso agli alberi del giardino.

Ora la mia strada attende la riapertura della fabbrica. Attende percorsi turistici e ciclistici verso il lago di Montepulciano. Attende progetti di incubatori rurali per le imprese giovanili. Attende volantinaggi per le elezioni amministrative, benedizioni pasquali dei sacerdoti, nuovi portalettere confusi, gatti smarriti da aggiungere alla colonia.

La mia strada attende, perchè vive ai margini. Sospesa tra campagna e paese, sempre un passo indietro alla modernità, sempre in attesa di un futuro creato lontano, che possa diffondersi anche qui. Come i raggi del sole, come le propagazioni di un’onda.

La mia strada non voleva essere più campagna, ma non è mai riuscita a diventare paese. Perduta nel limbo di un futuro che non arriverà mai, attende.
Lontana dal centro del mare, senza la dignità della riva.
La mia strada attende di diventare spiaggia, con la paura di essere sommersa dalla marea.

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