Terza Vita – Siena,1995

The Gospel according to All: Terza Vita. Le indagini dell’Ispettore Martini a Siena durante il Natale del 1995.

The Gospel according to All – Terza Vita

Siena, 1995

Capitolo 1
L’Ispettore Martini si avvicina alla pensione, cercando di risolvere il suo ultimo caso.

L’ispettore Martini è un uomo molto alto.
Ha grandi mani, mani che più di una volta ha usato per spaventare gli indagati durante gli interrogatori. Ma sono anche mani delicate, capaci di toccare teneramente le corde di un violino.
L’ispettore Martini andava orgoglioso dei suoi capelli, quando erano gli anni ’70. Ma ora è calvo e non fa nulla per nasconderlo. Non gli importa più.
L’ispettore Martini indossa una felpa e dei pantaloni di stoffa sotto un pesante cappotto. Uno di quei cappotti beige che i borghesi degli anni ’70 dovevano indossare per apparire rispettabili. Ma, a differenza dei suoi coetanei, lui non l’ha mai seppellito nell’armadio.
L’ispettore Martini si chiama Claudio, è nato il 15 settembre del 1940 e prende sempre il caffè con due zollette di zucchero.
“Morirai di diabete.” gli dice Giuseppe, che invece lo prende nero come la notte.
Claudio scrolla le spalle, senza rispondere. Gira il cucchiaino dentro la tazza, nervosamente. La mattina non si prospetta delle migliori. Nessuna lo è mai stata, negli ultimi tempi. La colazione al bar serve a dimenticare i brutti pensieri e a passare qualche minuto in compagnia, senza soffermarsi troppo sui casi irrisolti o sulla pensione in arrivo.
“Ultimamente faccio degli strani sogni.” dice Giuseppe.
“Ah, si?”
“Sì. Nadia, c’è ancora una pasta con la marmellata?”
“Mi sembra di sì. Prendila pure.” risponde la barista.
Claudio finisce di bere il caffè. Troppo dolce. Forse ha messo per sbaglio tre zollette di zucchero, invece di due. O forse ha ancora in bocca il sapore del biscotto di quella mattina.
Giuseppe si mette a sedere al tavolo. Sfoglia pigramente la Gazzetta dello Sport, poi comincia a mangiare la brioche.
“Bè?” chiede Claudio.
“Cosa?”
“Questi sogni che hai fatto.”
“Oh, i sogni. Si.”
Giuseppe si fa più cupo. Ricomincia a sfogliare distrattamente il giornale, poi comincia a parlare. Non guarda il collega negli occhi.
“È strano, sai. A volte mi capita di pensare a quel caso che abbiamo avuto… quand’era, tre anni fa?”
“Quale?”
“Quello del Santoni.”
“Sì, tre anni fa.”
“Bè, lo ricordo come se fosse ieri. La ragazzina morta, il ragionier Santoni come unico sospettato. C’erano le sue impronte sulla scena del crimine. Aveva quel cazzo di bastone in cantina. Non ci si poteva sbagliare. Doveva essere lui per forza.”
“E lo era.”
“Sì. Ma non crollava. Non ti ricordi, quel poliziotto di Perugia? Quello che poi hanno trasferito?”
“Sì.”
“Ti ricordi che stava per prenderlo a pugni durante l’interrogatorio? Quello stronzo del Santoni non crollava. Avevamo tutto, ma non il movente. Nessuno li aveva mai visti assieme, nessuna amicizia in comune. Niente. C’era tutto, tranne il movente.”
“Non dire cazzate. Il movente c’era. Abbiamo trovato quelle foto. La spiava da mesi.”
“Sì, vabbè. Ma le abbiamo trovate due mesi dopo, capisci? Due mesi! Se sua moglie avesse ripulito la soffitta un pò prima, sarebbero sparite anche quelle. Per due mesi il crimine è stato senza movente. O meglio, lo sospettavamo che quel Santoni avesse dei problemi… ma non avevamo la certezza. Potevamo commettere un errore.”
Claudio annuisce. Porta una mano al taschino, cercando il pacchetto di sigarette e la scatola dei fiammiferi. Giuseppe finisce di mangiare la brioche.
“Si, vabbè. È stato un caso limite, quello del Santoni. Ma che c’entra con i tuoi sogni?”
“Ieri sera ci stavo pensando. Lascia perdere il Santoni, adesso. Immagina un crimine senza movente. Non uno schifoso pedofilo dalla bocca cucita. Immagina che ci sia una persona, anche una persona comune, che un giorno decide di uccidere qualcuno. Senza movente.”
Claudio fa una smorfia. Si accende una sigaretta, in silenzio.
“Metti che passa una persona per strada, metti che è la prima volta che la vedo. – continua Giuseppe – La seguo. Con una scusa la porto in un posto isolato. La uccido. Se sono abbastanza bravo, se so come lavora la polizia, posso anche evitare di lasciare tracce. E nessun movente. Cristo, nessun movente, nessuna traccia. L’omicidio perfetto.”
“È una stronzata.”
“No, è perfetto. Il capo potrebbe anche raddiopparci la busta paga, ma non c’è Cristo che tenga. Se non c’è movente, come lo prendi? E se lo prendi, come fai ad essere sicuro che è lui il responsabile? Con un avvocato bravo non finisce neppure in prigione.”
“Ed è questa storia che stai sognando?”
“Più che sognando, diciamo che ci stavo pensando. Quando ero a letto, nei giorni scorsi. Prima di addormentarmi.”
“La sognavi o ci pensavi?”
“Non lo so. Non è la stessa cosa, in fin dei conti?”
“No. O la sognavi, o ci pensavi.”
“Vabbè, allora la pensavo.”
“Allora hai dei problemi.”
“Non ho mica detto che voglio uccidere il primo che passa! Era un pensiero, tutto qua. Se capitasse, sarebbe un bel casino.”
Claudio annuisce di nuovo. Gli sembra che quel discorso non vada a parare da nessuna parte. Come capitava spesso con il suo collega, la mattina non ci si poteva aspettare dei discorsi carichi di significato. Perlomeno, quella mattina non si stava arrabbiando per le partite di calcio o per le gare di Formula 1.
Giuseppe tira fuori un borsellino e comincia a contare le monete.
“Nadia, ci fai lo sconto? Mi mancano duecento lire.”
“E tu mi fai lo sconto se finisco in galera?”
Giuseppe ride, poi le porta le monete al bancone. Claudio spegne la sigaretta. Rimugina ancora sulle parole dell’amico.
“Era solo un sogno.” dice, dopo qualche secondo.
“Cosa?”
“Quel tuo pensiero. Era solo un sogno, anche se non lo era. Non potrebbe che essere un sogno. Nulla di reale.”
Giuseppe si gratta il mento, perplesso.
“Non è possibile che non ci sia un movente. Se il criminale non è un malato mentale, c’è sempre un movente. Anche il gusto di uccidere qualcuno incontrato per strada è un movente. Ho letto di alcuni serial killer in Canada che l’hanno fatto. C’è sempre un movente.”
“Non ne sono così convinto.”
Claudio gira il cucchiaino dentro alla tazzina vuota, nervosamente.
“C’è sempre un movente. C’è sempre un ragione. Passionale, intenzionale, quello che vuoi… ma c’è sempre una ragione dietro a una morte.”
“La morte deve avere sempre una ragione?”
“Non la morte in generale. L’omicidio. La morte se ne frega degli uomini. Ma gli uomini non sono capaci di fregarsene. Quando uccidono un loro simile, c’è sempre un motivo.”

 

Una nottata di merda, in questura. Il turno notturno è sempre stato una merda, per Claudio, anche quand’era un semplice agente di polizia. Non che preferisse starsene a casa, per carità. Avrebbe dormito in ufficio, se fosse servito alle indagini. Ma durante la notte Siena è quasi deserta e in questura aleggia una pessima atmosfera, perchè non sai mai cosa aspettarti. Le cose peggiori, in quella città come nel resto del mondo, accadono di notte.
Anche questa è una nottata di merda, per Claudio. Il temporale si abbatte sui tetti di Siena dal pomeriggio, e la pioggia non accenna a diminuire. In questura sono già arrivati due immigrati clandestini, una coppia di sposini che si erano messi a tirarsi i piatti la prima notte di nozze e un drogato in cerca di una dose, che aveva confuso il portone della centrale con quello dell’amico spacciatore.
Una notte come tante, insomma. Claudio finisce di scrivere gli ultimi verbali con il computer. Non si è ancora abitauto, preferirebbe la macchina da scrivere; ma i tempi cambiano, ed è necessario adattarsi alle nuove tecnologie. Giuseppe beve una tazza di caffellatte, stiracchiandosi sul divano dell’ufficio. La televisione è accesa sul telegiornale, che indugia enfaticamente sugli ultimi casi di cronaca nera.
La chiamata arriva all’improvviso, interrompendo Claudio mentre cerca la parola giusta per finire la frase. La degna conclusione di una nottata di merda: una rissa tra ubriachi fuori da un bar, con un morto e due feriti.
Giuseppe vorrebbe finire di bere la sua tazza, ma Claudio se lo porta dietro. C’è Angelo nell’altro ufficio, pronto a fare la spia con il capo per ogni loro ritardo o disattenzione.
Arrivano in zona Due Ponti che sono passate da poco le due. Il bar è vicino all’incrocio che conduce verso la superstrada. Gli agenti hanno già delimitato la scena del crimine. Non ci sono curiosi da tenere lontani, in una notte come quella. Piove, e soffia un vento gelido. Sembra che le nubi si divertano a pisciare loro in faccia. Le banchine e i parcheggi sono coperte di fango e bottiglie di birra.
Giuseppe parcheggia in mezzo alla strada, poi esce con il cappello in testa. Claudio si aggiusta il cappotto e apre l’ombrello. Accanto a loro c’è un’altra auto della polizia, una volante dei carabinieri e un’ambulanza. Giorgia li saluta con un cenno della testa.
“Brutta nottata, eh?”
“Almeno noi eravamo al caldo.” dice Giuseppe, sorridendole.
Luca li raggiunge in un attimo, con quella sua tipica espressione corrucciata. È bagnato fradicio, non ha neppure il cappello.
“Sembra una normale rissa.”
“Che è successo?”
“Erano in quattro. Così ha detto il barista. Hanno cominciato a litigare per delle stronzate, pare. Forse per la politica, o per le donne.”
“Donne. Quando ci scappa il morto, se non ci sono i soldi di mezzo, è sempre per colpa delle donne.” ironizza Giuseppe.
Giorgia gli lancia un’occhiataccia. Lui le fa l’occhiolino.
“Comunque sia… – continua Luca – Il barista si è incazzato. C’era un gruppo di ragazzi che festeggiava la laurea e l’hanno aiutato a buttare fuori questi quattro idioti. Però hanno continuato a darsele di santa ragione anche fuori.”
“Tutti e quattro?”
“No. – dice Giorgia – Uno è andato via subito. L’hanno detto anche i ragazzi.”
“Ci hai già parlato tu?”
“Sì. Sono ancora dentro, se vuoi parlarci. Comunque, sono affidabili. Ragazzi del posto, legati alle contrade.”
“E il morto?” chiede Claudio.
“Era ubriaco. Ha spaccato tre denti a uno e un paio di costole a un altro. Solo che il primo ha tirato fuori la pistola e gli ha fatto un’iniezione di piombo ad azione rapida.”
“Cos’è? Uno degli albanesi?” chiede Giuseppe.
“No, no. Un vigilante del posto. Ubriaco anche lui.”
Claudio annuisce. La pioggia scroscia con maggiore violenza. Giorgia è coperta da un impermeabile azzurro, ma i suoi capelli corvini sono completamente zuppi. Una macchina giunta dalla superstrada rallenta vicino a loro, poi prosegue verso il centro.
“Bene. – dice Giuseppe – Quello che è scappato? L’avete ripreso?”
“Non è scappato. – chiarisce Luca – Ha smesso di fare a botte e se n’è andato, prima che la situazione degenerasse.”
“Forse un cazzotto lo ha fatto rinsavire improvvisamente. Se ne prendeva un altro paio, diventava un genio della scienza.” scherza Giuseppe.
A Claudio non sfugge la risatina di apprezzamento di Giorgia. Luca tossisce, infastidito, poi continua a parlare:
“Una pattuglia dei carabinieri è già andata a cercarlo. Non sarà andato troppo lontano.”
“E i feriti?” chiede Claudio.
“Sull’ambulanza. Confermano la versione degli altri testimoni, per ora.”
“Sono messi male?”
“No. Sono vivi, perlomeno.”
Claudio non ha bisogno di dare ordini. Dopo tanti anni, ormai tutti conoscono la sua prassi. Giuseppe va a parlare con i feriti, gli agenti tornano a raccogliere le dichiarazioni dei testimoni dentro al bar. Lui si concentra sul cadavere, come al solito. I rapporti sociali lo disturbano. Lo confondono, lo infastidiscono. Preferisce i fatti. I ragionamento, gli indizi, i dettagli. I vivi possono fregarti, con le loro menzogne e i loro sporchi giochi. I morti no.
Il cadavere è steso sull’asfalto. L’acqua ha lavato via il fango e il sangue. La sua nottata è stata peggiore di quella di Claudio, senza dubbio. È un uomo sulla quarantina, col volto butterato e corti capelli scuri. Gli agenti hanno già fatto le foto e perquisito il corpo; il coroner ha già provveduto a fare le sue analisi ed è pronto a portarlo via. Claudio prende in consegna gli effetti personali dell’uomo e lo osserva per l’ultima volta. Il proiettile gli ha scavato un buco all’altezza del cuore. Una morte istantanea, forse neppure dolorosa. Ma gli occhi sono spalancati, come paralizzati in un’eterna sorpresa.
La morte coglie tutti impreparati, Claudio ne è consapevole. La morte coglie all’improvviso, anche quando è attesa. Claudio non ha mai visto pace, negli occhi dei cadaveri, nel corso di tutte le sue indagini. Sempre e solo dolore, stupore, terrore. Neppure i suicidi desiderano veramente la morte. Anche loro hanno gli stessi occhi inquieti e spalancati, lo stesso sguardo atterrito.
Claudio cerca una sigaretta, distogliendo lo sguardo dal corpo. Un autobus gli passa vicino, schizzandogli il fango sul cappotto. Una nottata di merda.

 

Il morto si chiamava Renato Bianchini. Quarantaquattro anni, nato ad Asciano, impiegato nell’azienda di trasporto pubblico come autista degli autobus urbani. Claudio gira la carta d’identità tra le mani, poi si accende l’ennesima sigaretta. Gli effetti personali del morto si limitano al portafogli. Claudio lo svuota sul tavolo, lentamente.
Ormai non si stupisce più di ciò che può capire da un semplice portafogli. Tutta una vita racchiusa in un piccolo oggetto, tra soldi e documenti, foto e portafortuna. Tutti quegli oggetti parlano più di un morto. E non mentono.
Fuori piove ancora. La questura è calma. Anche il drogato ha smesso di lamentarsi, dentro la cella. Giuseppe fuma in disparte, facendo zapping alla televisione. Giorgia e Luca sono già andati a casa, mentre Angelo lavora freneticamente ai suoi verbali.
Cluadio osserva il contenuto del portafogli. Trentamila lire, qualche spicciolo. Nessuna carta di credito. Una scheda telefonica. La carta d’identità dice che Renato era divorziato. La fotografia in bella vista mostra una donna e un bambino, sorridenti; è vecchia di qualche anno. Il tesserino del lavoro è usurato, a differenza del passaporto. Claudio si lascia sfuggire un sorriso: anche nel suo portafoglio è la stessa cosa. Troppo tempo passato a lavorare e troppo poco tempo libero per viaggiare.
Nella tasca interna c’è una nutrita collezione di biglietti da visita: un’azienda di vini di Montalcino, la sala giochi del quartiere, la pubblicità di una cartomante, l’abbonamento alla palestra e la tessera di un’associazione sportiva dilettantistica. E infine una piccola rubrica telefonica, in cui sono segnati una ventina di numeri tra familiari e amici.
Non c’è molto da indagare. Non c’è nulla da scoprire, in realtà. Quella del morto era una vita come tante, quella fuori dal bar era stata una rissa come tante. Claudio non ha bisogno di fare congetture assurde, neppure per passare il tempo. Le testimonianze sono sufficienti. E l’assassino ha già confessato, durante il tragitto verso l’ospedale.
Renato era rimasto vittima di una banale rissa da bar. Ha avuto la sfortuna di prendere a pugni la persona sbagliata, un vigilante fuori servizio col vizio dell’alcol, che aveva fatto dei commenti un pò troppo avventati sulla sua ex moglie. E che aveva tirato fuori la pistola senza riflettere.
Claudio spegne il mozzicone della sigaretta sul posacenere, poi rimette a posto il portafogli. Ha intenzione di rimandare al giorno successivo indagini più accurate. Se quello era l’ultimo caso della sua carriera, prima del pensionamento, si trattava di un caso fin troppo semplice. Non era un omicidio di mafia, non era un intrigo politico, non era un regolamento di conti tra bande rivali. Neppure l’omicidio senza movente commesso da un folle, l’incubo che turbava il sonno di Giuseppe. Quello era un caso come tanti, una vittima come tante. Solo un’altra morte di una persona di passaggio, che non avrebbe avuto neppure la soddisfazione di un fascicolo zeppo di verbali e un processo carico di veleni.
Solo un’altra notte di merda, come tante altre.

Capitolo 2
L’Ispettore Martini continua le indagini, senza ricevere aiuto dai colleghi della questura.

Claudio si ferma davanti allo specchio. Si sciacqua il viso e le mani, poi comincia a farsi la barba. È una procedura rapida, quasi meccanica. Claudio la porta avanti con la forza dell’abitudine, seguendo sempre gli stessi movimenti. La schiuma nel ripiano dietro la vetrina, il rasoio nel cassetto sotto il lavandino, la bacinella sopra la pila di asciugamani.
Osserva il suo volto riflesso nello specchio: sguardo stanco, occhiaie profonde. Il suo materasso è vecchio e sfondato, terribilmente scomodo. Si ripromette di cambiarlo da anni, ma non la fa mai. Ogni mattina si sveglia con il mal di schiena e con le fatiche di una pessima nottata di sonno. Ci sarà tempo per riposarsi, si è sempre detto. Ci sarà tempo per riposarsi, magari dopo la pensione, magari dopo la soluzione degli ultimi casi. Finché c’è tutto quel lavoro, tutte quelle indagini da portare avanti alla ricerca della verità, non si può permettere di riposare.
Si passa la lama sotto il mento, ma alla seconda passata si provoca un leggero taglio. Il sangue che sporca la schiuma gli fa tornare alla mente le parole di sua madre.
“Tu non hai mai fatto sacrifici. Tu sei stato fortunato. Tuo padre sì che li ha fatti. Lui ha fatto la guerra.”
Forse è vero. I sacrifici che ha fatto Claudio non sono paragonabili a quelli del padre, che era arrivato a sacrificare la sua stessa vita per la patria. Dal canto suo, Claudio ha sempre fatto il suo dovere, lavorando per trent’anni nelle forze di polizia. Forse non può chiamarlo sacrificio, ma soltanto senso del dovere. Forse un sacrificio può essere considerato tale solo se si perde la vita. Forse Claudio non avrebbe mai fatto abbastanza, per emulare suo padre e soddisfare sua madre. Ma perdere la vita in servizio non è mai stato il suo sogno. E non ha intenzione di avverarlo proprio adesso, che mancano soltanto due mesi alla pensione.

C’è qualcosa nel volto di Angelo Lippi che non è mai piaciuta a Claudio. Forse è la sua piccola bocca, sempre contratta in un sorrisetto ironico. Forse è quell’aria di sufficienza e superiorità con cui affronta ogni discussione. Forse è la sua espressione rilassata, i capelli tirati all’indietro, gli occhi arguti e penetranti.
Si incontrano alla macchinetta del caffè, come ogni mattina. Angelo lo saluta con un cenno. Guarda sempre tutti dall’alto verso il basso. Ci riesce anche con Claudio, nonostante la sua altezza.
“Tra poco ti godrai la pensione, eh?” gli dice.
“C’è tempo per un ultimo caso.”
“Non era quella rissa?”
“Sì. Al bar dei Due Ponti.”
“Allora è già risolto, a quanto mi hanno detto. Il capo ha già passato tutto al tribunale.”
“Sì.”
“Allora puoi andare già in pensione, no? Una bella fortuna. Caso risolto, pensione guadagnata.”
Angelo sorride ancora una volta, con quella sua espressione insopportabile. Claudio mette le monete nella macchinetta, senza rispondere. Sa bene che il suo collega prenderà il suo posto, quando lui sarà in pensione. Non l’ha mai sopportato. Ma nel suo lavoro è sempre stato più bravo di Giuseppe, purtroppo.
“Non so se sia risolto. C’è qualcosa che non mi convince.” confessa, mentre prende due bustine di zucchero dal barattolo.
“Che cosa? C’è già stata una confessione. Da parte del vigilante.”
“C’erano tante persone, in quel bar.”
“Luca ha interrogato anche quello che era scappato. L’ha trovato ad ubriacarsi in un altro bar, vicino alla stazione. Si è fatto una nottata in cella.”
“È una sensazione. Tutto qua.”
“Le intuizione del grande investigatore, eh? Ci mancheranno.”
Claudio annuisce. La bocca del collega è bloccata a metà tra un sorriso e una smorfia. Non capisce mai se Angelo lo stia prendendo in giro o lo stia sinceramente elogiando. Più probabile il primo caso, in realtà. Di persone del genere non c’è mai da fidarsi.
“Comunque sia… – dice Claudio, sorseggiando il caffè – Me ne andrò alla fine di questo caso. Voglio accertarmi che sia veramente concluso.”
“Buona fortuna, allora.”
Claudio torna nel suo ufficio. Angelo si prende il caffè, fischiettando. Anche di fronte alla macchinetta aveva atteso che Claudio gli lasciasse il posto, senza frenesia nè preoccupazioni.
Ecco cos’è che dà fastidio a Claudio, nella faccia del collega. La sicurezza. L’aria di superiorità, l’espressione furba, l’occhiata irrispettosa: sono tutte manifestazione della sua estrema sicurezza. Perchè Angelo non ha mai perso una battaglia. Una carriera fulminante, una moglie bellissima, una famiglia felice. E adesso, alla soglia dei quarant’anni, sta per diventare il miglior ispettore della provincia di Siena.
Claudio si mette a sedere dietro alla scrivania, affondando il naso tra i verbali degli ultimi interrogatori. Cerca indizi che possano chiarire meglio le dinamiche di quella rissa. Angelo passa davanti ai vetri dell’ufficio, salutandolo con un cenno della testa.
“Goditi il tuo ultimo caso, vecchietto.”
Anche in quel caso, Claudio non sa dire se il collega stia scherzando o lo stia sfottendo.

Un piatto di pasta al bar di Nadia è il miglior pranzo a cui Claudio può aspirare, da quando vive da solo. Da quindici anni ormai si reca nello stesso bar per la pausa pranzo, da solo o in compagnia. In cucina è sempre stato un disastro: se non fosse per i ristoranti, sarebbe costretto a campare di scatolette e crackers.
Si toglie il cappotto e si mette a sedere in un angolo, assieme ai colleghi. Nadia non ha bisogno di prendere la sua ordinazione: un piatto di spaghetti all’arrabbiata e mezzo litro di vino, come ogni giorno.
Claudio è un abitudinario. E come d’abitudine si mette al divanetto nell’angolo, in attesa del suo piatto. A casa non c’è nessuno ad aspettarlo, a differenza di quella tavola calda.
“Per me un piatto di pici al ragù di cinghiale.” dice Giuseppe.
Nadia segna sul taccuino.
“Per me penne al pomodoro. Non troppo abbondante.” dice Giorgia.
“Cos’è, sei a dieta?”
“Non ho tanta fame…”
“Voi donne non sapete godervi la vita.”
“Per quello c’è il tempo libero. – protesta lei, sorridendo – E poi, devo pensare anche alla linea!”
Giuseppe ridacchia. Addenta una fetta di pane e si passa una mano tra i capelli. A Claudio sembra che si stia sistemando la cresta, come ogni volta in cui c’è una bella ragazza nei paraggi.
“Luca ti ha detto che sei ingrassata?”
“Falla finita! – strilla lei, sbuffando – Tra di noi non c’è nulla.”
“È la stessa cosa che dicono le sue palle.”
“Ok, il livello della conversazione sta scendendo a picco. Io vado a cucinare.” dice Nadia, con tono stizzito.
Giorgia e Giuseppe ridono assieme. Claudio sbocconcella un pezzo di pane, senza prendere parte ai loro discorsi. Continua a pensare alla rissa e alla morte del Bianchini. Anche se il capo ha già chiuso le indagini, dopo una settimana di interrogatori e verbali, lui non si sente ancora tranquillo. C’è qualcosa che non gli torna, in tutta quella storia.
“A cosa pensi?” gli chiede Giorgia. Ha la bocca carnosa e gli occhi neri, le forme prosperose della tipica bellezza mediterranea. Claudio non si stupisce che tutti i colleghi perdano la testa per lei. Anche lui avrebbe potuto farci un pensierino, se avesse avuto vent’anni di meno. E se avesse avuto lo stesso carisma di Giuseppe.
“Claudio?” ripete Giorgia.
Lui si scuote dai suoi pensieri e abbozza un sorriso.
“Nulla di importante.”
“E dai. – si lamenta Giuseppe – Lo sappiamo bene. Quando sei così pensieroso, significa che c’è qualcosa che ti turba nel lavoro.”
“Ma lui è sempre così.”
“Perchè c’è sempre qualcosa che lo turba! Meno male che c’è la pensione, eh?”
“Quando avrò finito questo caso.” dice Claudio.
“Ma è già finito. Le perizie scientifiche non hanno evidenziato nessuna anomalia. Ci sono le confessioni e le testimonianze. Adesso è un problema di avvocati e magistrati.”
“Sì, lo so. Ma c’è qualcosa che non mi convince.”
“Cosa?”
“Non lo so. È una sensazione.”
Giorgia gli stringe la mano. Claudio non capisce se lo stia commiserando o se piuttosto lo stia confortando. Nadia porta in tavola una brocca di vino, poi torna in cucina.
“Te lo dico io cosa c’è che non va.” dice Giuseppe, facendosi improvvisamente serio.
“Cosa?”
“Tu. Ecco cos’è che non va. Sei tu. Non vuoi che il tuo ultimo caso sia così banale, non vuoi che sia una delusione del genere. Non vuoi andare in pensione.”
“Non è vero.”
“È vero. L’hanno capito tutti. Ti hanno capito tutti.”
Claudio si versa un bicchiere di vino, senza rispondere. È infastidito. Giuseppe lo fissa con sguardo accusatorio, mentre Giorgia sembra commiserarlo.
“Te lo dico perché sono tuo amico. – continua Giuseppe, facendosi più gentile – Angelo lo direbbe al capo, continuando a sorriderti davanti. Io no. È giusto dirtelo in faccia.”
Claudio annuisce, senza convinzione. Quando arriva la pasta, mangia alla svelta, anche se non ha molto appetito. Non dice più una parola. Lascia Giorgia e Giuseppe alle loro risate.

“Babbo?”
Claudio sta a sentire la voce senza dire nulla. Fuori dalla cabina sta piovendo. Un uomo passa velocemente con un giornale sulla testa, portandosi dietro il pastore tedesco. I fari delle macchine sfrecciano sull’asfalto.
“Babbo? Sei tu?”
“Sì, Chiara.”
“Dove sei?”
“A casa.”
“Sento dei rumori. Dove sei?”
“A Siena.”
L’altro capo del telefono tace. Claudio si passa la cornetta all’altro orecchio, poi con la mano libera cerca il pacchetto di sigarette.
“Ti ho cercato tutto il giorno, babbo.”
“Scusa. Ero al lavoro.”
“Come al solito.”
Nei film succede spesso di vedere matrimoni che finiscono male, per colpa del lavoro. Claudio l’ha sempre considerato come un indizio di scarsa fantasia da parte degli autori. Ma quelli sono soltanto dei film, soltanto dei sogni. La sua è la realtà. La vita vera. E può essere anche maledettamente noiosa e banale.
“Coma va? Tutto bene?” chiede, mentre cerca i fiammiferi.
“Si, babbo. Tu? Sei pronto alla pensione?”
“Diciamo di sì. Un ultimo caso, poi sarò libero.”
“Come farai?”
“È semplice. Si firmano un paio di scartoffie e si va in posta a ritirare i soldi.”
“No, dico… come farai senza il lavoro?”
“Oh, bè. Che problema c’è? Siete tutti preoccupati… vorreste farmi lavorare per altri dieci anni?”
“Tu lo vorresti?”
Claudio tace. La pioggia batte con rinnovata violenza contro la cabina telefonica. Sotto al telefono rosso c’è una pila di elenchi umidi e stropicciati, oltre a qualche giornale pubblicitario.
“Comunque, babbo… – continua Chiara – Volevo dirti una cosa.”
“Dimmi.”
“No, non al telefono. Quando possiamo vederci?”
“Non lo so.”
“Marco è libero domani sera, verso le sei.”
“Deve esserci anche Marco?”
“Sì, babbo. Dai, dieci minuti. Al bar di via Montanini.”
“Che è successo?”
“Niente di grave. Anzi.”
“Dai.”
“Te lo dico domani. Buonanotte, babbo.”
“Chiara…”
“Buonanotte.”
“Notte.”
Claudio rimane con la cornetta all’orecchio per qualche altro secondo. Si accende lentamente la sigaretta, poi rimette a posto il telefono. Si aggiusta il bavero del cappotto ed esce in strada. Piove, piove incessantemente. Le macchine sfrecciano come se fosse un’autostrada, coi fari che abbagliano i cartelli pubblicitari lungo i palazzi.
Claudio non ha bisogno di riflettere a lungo sulle parole della figlia. Vuole sicuramente parlare del matrimonio. È normale, ormai ha quasi ventiquattro anni, e convive da due anni con Marco. Stanno sicuramente pensando al matrimonio. Sicuramente sua madre lo sa già da una settimana. Anzi, sicuramente a lei ha chiesto dei consigli. A lui, invece, si limita a dare delle informazioni, quando le decisioni sono già state prese. Proprio come sua madre, che prese la decisione di divorziare assieme a quella stronza della sorella.
Un’autobus si ferma davanti a lui. Escono due ragazzi in giacca e cravatta, che imprecano e aprono subito gli ombrelli. Claudio spegne la sigaretta e sale sull’autobus.

Capitolo 3
Un nuovo crimine turba la città di Siena e i pensieri dell’Ispettore Martini.


Claudio rimane in ufficio oltre l’orario di lavoro. Gli straordinari non sono mai stati un problema, da quando ha divorziato. Non c’è nessuno ad aspettarlo a casa, mentre la scrivania è piena di verbali da rileggere e indizi su cui riflettere.
Quando arriva la chiamata per Angelo, decide di accompagnarlo. Giuseppe è già andato a casa, mentre il capo è impegnato con il sindaco e alcuni giornalisti.
“Proprio non vuoi andare a casa, eh?” gli dice Angelo, con quel suo sorrisetto ironico.
“Devo chiudere il caso della rissa.”
“È già chiuso.”
“Voglio ricontrollare le deposizioni di quei giovani.”
“E allora rimani qui a lavorare, no?”
“Preferisco accompagnarti. Mi aiuterà a riflettere meglio.”
“Come vuoi. Vieni pure a darmi una mano. Ma questo è il mio caso.”
“Ovvio.”
Non ha nessuna intenzione di mettersi contro Angelo, proprio adesso che si trova a un passo dalla pensione. Non l’avrebbe fatto neppure prima, a dir la verità. Si sarebbe limitato a trasferirsi nella scrivania più piccola e a occuparsi dei suoi casi, lasciando spazio alla carriera del collega.

 

Il cadavere si trova all’ultimo piano dell’Hotel Continental, vicino a Piazza Salimbeni. Un albergo di lusso, con i banchieri in limousine e i turisti carichi di carte di credito.
“Brutta storia.” dice Angelo, prima ancora di entrare.
Le ambulanze sono ferme davanti all’ingresso, in pieno centro storico.
I carabinieri li portano alla stanza in cui è stato ritrovato il corpo. La cameriera piange disperata in un angolo. Il direttore dell’albergo si affanna ad allontanare i giornalisti.
“Fate largo. – dice Angelo, alzando la voce – Polizia.”
Claudio lo segue in silenzio. Cerca di non far caso alle manie di protagonista del collega, ma è concentrato unicamente sul corpo al centro della stanza.
Il cadavere appartiene a un uomo di mezz’età. Ha il volto ben curato, i capelli corti, gli occhiali con una montatura leggera. Indossa una giacca Armani e delle scarpe di alta moda. È riverso a terra, con gli occhi chiusi e la bava alla bocca.
I paramedici si muovono freneticamente attorno al cadavere come delle piccole formichine attorno alle briciole di pane. Analizzano, studiano, prendono campioni e scattano foto. Angelo dà una breve occhiata alla stanza, mentre i carabinieri tengono lontani i camerieri.
“Suicidio.” sentenzia, dopo qualche secondo.
Claudio rimane spiazzato da quella parola. Aggrotta le sopracciglia e fissa il collega, per nulla soddisfatto. L’ipotesi è plausibile, considerando quella manciata di indizi che si potevano comprendere a prima vista, ma non apprezza quelle manie di protagonismo in una situazione del genere. Anche i carabinieri sembrano confusi.
“È evidente. Fate un giro nella stanza e vedrete che mi darete ragione.” continua Angelo.
“Oh, che fortuna! – lo prende in giro uno dei carabinieri – Abbiamo Sherlock Holmes in mezzo a noi.”
Angelo non si arrabbia, anzi. Lo fissa e sorride ancora di più. Poi si allenta il colletto della camicia e fa un sospiro.
“Va bene, se è troppo difficile per voi, allora vi aiuto. Primo dettaglio, la fede al dito. Secondo dettaglio, siamo in un albergo.”
Il carabiniere scrolla le spalle e ridacchia. Angelo procede verso il bagno, la cui porta è aperta e lascia intravedere il mobiletto all’interno.
“Vedete? Altri due dettagli. Farmaci. Proprio lì, vicino al lavello. E qua sopra, sul comodino? La fotografia di una coppia felice assieme a un neonato. È evidente. Suicidio per depressione.”
“Non mi sembra affatto evidente.” protesta Claudio.
Angelo gli si avvicina lentamente, poi porta le mani dietro la schiena. Non abbandona il suo sorrisetto neppure per un secondo. Quando parla, con tono pacato ma autoritario, tutte le persone nella stanza pendono dalle sue labbra:
“Un uomo di successo, un uomo d’affari. Felice, ricco, senza problemi. In stato di depressione dopo la nascita del nipote. Sa che la sua giovinezza è finita per sempre, sa che anche lui dovrà morire. Non ha intenzione di affrontare la vecchiaia, la pensione, il decadimento del corpo e delle energie. Preferisce andarsene in una stanza d’albergo, in maniera anonima e decorosa, piuttosto che sfiorire. Preferisce morire da vincente, da uomo di potere, piuttosto che diventare un peso.”
“Belle parole, sì. Ma su quale basi? Senza prove, è una bella storia.”
“Oh, sì. Le prove. Bè, la foto sul comodino è evidente. Non è una vecchia foto del morto, i tratti somatici e il colore dei capelli sono diversi. Ma si notano evidenti somiglianze con la donna. E anche la fotografia è recente, per via dello stile e della stampa. Per cui, è evidente: si tratta della figlia. E il neonato che tiene in braccio è il nipote del morto, da poco diventato nonno.”
“Una buona osservazione, lo ammetto.”
Angelo sorride ancora di più. Adesso sembra una vipera pronta a colpire, che già pregusta la sua preda. Cammina avanti e indietro per la stanza, parlando ad alta voce. Si rivolge a Claudio, ma guarda i carabinieri, i paramedici e i camerieri. Tutti lo ascoltano in religioso silenzio.
“La stanza d’albergo è una scelta tipica per il suicidio, per uomini del suo calibro. L’ingestione di barbiturici è un’altra scelta tipica per chi vuole mantenere inalterato il proprio corpo. Non è violenta come un colpo di pistola, né dolorosa. Rimane un cadavere in perfetto stato, che per certi versi può ancora essere adorato. Un suicidio perfetto per un uomo di potere.”
“E le prove? Dove sarebbero le prove? Sono solo supposizioni.” si lamenta Claudio.
“Sono certo che i paramedici troveranno un barattolo di barbiturici vuoto, in bagno. Sono certo che la carta d’identità ci rivelerà che il morto era un alto dirigente del Monte dei Paschi. E sono altresì certo che nel primo cassetto del comodino troveremo una bustina di eroina, a dimostrazione dello stato di depressione in cui era caduto.”
Claudio incrocia le braccia al petto, in segno di sfida. Un giovane paramedico va in bagno e torna con due scatolette di farmaci.
“Una confezione di ibuprofene, a malapena iniziata. E una di barbiturici, vuota.”
Angelo sorride.
Uno dei carabinieri si mette a frugare nel portafogli del cadavere. Poi dice, a voce bassa:
“Fausto Rossi. Ha compiuto cinquant’anni da una settimana. Suo nipote è nato il mese scorso, c’è ancora il biglietto di auguri dei genitori. E qui il tesserino… sì, dirigente del Monte dei Paschi. Una filiale romana. È arrivato in città da due giorni.”
Angelo fa un cenno a una cameriera, indicandole con la mano il comodino. La ragazza apre il primo cassetto, ma non trova nulla. Claudio sorride.
“Cerca meglio.” dice Angelo, infastidito.
La cameriera fruga nel secondo cassetto, e trova una bustina di polvere bianca in mezzo alle pagine della Bibbia. Angelo sogghigna, poi fa un leggero inchino davanti alla folla.
“Che vi avevo detto? Suicidio per depressione. Caso risolto.”
Qualcuno applaude. Altri rimangono a bocca aperta. Claudio si limita a infilare le mani nelle tasche del cappotto e a uscire dalla stanza, senza dire nulla. Sente le risate di Angelo dietro di lui, più dolorose di una pugnalata alla schiena.

 

Claudio tamburella con le dita sulla cornetta del telefono. Fuori dalla cabina soffia un forte vento, freddo e umido. Le strade sono piene di pozzanghere e di fango. Finalmente sente una voce dall’altro capo della cornetta.
“Chiara? Sei tu?”
“Sì. Babbo?”
“Sì. Scusami per il ritardo.”
“Sei ancora al lavoro? Noi stavamo uscendo adesso. Che è successo?”
“Sto per tornare al lavoro. Scusami, c’è stata un’emergenza.”
“Il banchiere che si è suicidato nell’albergo?”
“Già. Un bel casino.”
“Sì, l’ho sentito al telegiornale.”
“Devo seguire il caso. Ne avrò per tutta la notte.”
La figlia tace. Claudio la immagina mentre si arriccia nervosamente i capelli, come da piccola. Dopo qualche secondo, riprende a parlare:
“Vabbè.Facciamo la settimana prossima?”
“Sì, grazie.”
“Ci sarà anche Marco. Stesso posto, stessa ora.”
“Grazie. Scusami ancora.”
“Vedi di non trovare scuse, però! Ormai sei vicino alla pensione, non dovrebbero più affidarti certi casi.”
“Sì, ma voglio controllare…”
“Sì, sì. Vabbè. Ciao, babbo. Buona serata.”
“Ciao.”
Claudio esce dalla cabina telefonica. Conta i soldi per le sigarette, poi cammina verso il tabacchino dall’altra parte della strada.
C’è una Audi nera ferma al semaforo, che gli sembra di riconoscere. Quando si fa più vicina non ha più dubbi: c’è Giuseppe alla guida, con i capelli impomatati e il sorriso smagliante. Giorgia è di fianco a lui, in abiti civili. La macchina accosta, e Giuseppe abbassa il finestrino.
“Ancora al lavoro?”
“Sì. Voglio dare una mano ad Angelo per questo caso.” spiega Claudio.
“Hai già nostalgia?”
Lui scrolla le spalle. Giorgia saluta con la mano, sorridendo.
“Ma perchè non ti trovi una donna? Almeno un’amica. Per divertirti, una serata. Anche a pagamento.”
“Non ho tempo. Devo lavorare.”
“Come vuoi tu. Noi andiamo a bere qualcosa. – continua Giuseppe – Mi raccomando… goditi la vita anche tu, quando sarai in pensione. Non abbiamo due vite da vivere.”
“Farò il possibile.”
Giuseppe gli fa un cenno d’intesa, poi riparte. Claudio si accende l’ultima sigaretta del pacchetto, mentre li guarda sfrecciare via in mezzo al traffico.

 

Claudio non partecipa mai ai funerali delle vittime dei suoi casi. Non vuole sentirsi troppo coinvolto. Non vuole unirsi al cordoglio, alla commemorazione, all’elaborazione del lutto. Vuole mantenere le distanze, fare il suo dovere e pulirsi la coscienza. Giuseppe è più bravo a dare conforto ai familiari, Angelo è più professionale nel tenere i rapporti sociali. Claudio preferisce concentrarsi sul suo lavoro, risolvendo i casi che gli vengono affidati: la migliore forma di rispetto per i parenti delle vittime è fare chiarezza sui crimini e dare delle risposte certe.
Claudio è un poliziotto, ha a che fare con i morti ammazzati in continuazione. Con un lavoro del genere, se ti affezioni troppo è la fine. Se sei troppo tenero, non arrivi alla pensione. In un mondo come il nostro, è necessario diventare cinici; con un lavoro del genere, bisogna essere doppiamente cinici.
Per questo motivo Claudio non va al funerale del banchiere Fausto Rossi, a differenza dei suoi colleghi. Anzi, è un’occasione perfetta per rimanere in ufficio da solo. Un’occasione per riflettere sugli ultimi avvenimenti, sulle parole degli altri poliziotti e sugli indizi raccolti.
Quando entra nell’ufficio di Angelo, Claudio ha già dei sospetti. La soluzione del caso è stata troppo semplice, troppo spettacolare. Il collega ha conquistato le prime pagine dei giornali senesi e l’ammirazione di tutta la questura. Sente puzza di inganno e di corruzione, in quel giovane collega dal sorrisetto ironico e dalla carriera fulminea. La colpa principale di Angelo è quella di non aver fatto abbastanza sacrifici. Non come lui, che aveva passato vent’anni in una volante prima di arrivare in ufficio. Non come suo padre, che aveva perso la vita in guerra per difendere la patria. Angelo non ha fatto sacrifici e ha una famiglia ad aspettarlo, a casa. Non è solamente ingiusto: è anche sospetto. Terribilmente sospetto.
Quando rovista nella scrivania di Angelo, Claudio ha l’impressione che gli ultimi casi siano collegati. Non può che essere così. È filato tutto troppo liscio, tutto troppo tranquillo. Quando lavori per più di trent’anni nella polizia, sai che le cose sono sempre più complesse di quanto sia lecito aspettarsi. Impari sulla tua pelle che ogni indizio scartato può portare alla luce nuovi sospettati, nuovi crimini, nuovi collegamenti. Capisci che l’ingiustizia è dietro l’angolo: e ogni ingiustizia perpetuata da una polizia inefficiente e corrotta è una doppia ingiustizia.
Quando controlla gli effetti personali del banchiere suicida, Claudio sa con certezza che questo è il suo ultimo caso. La pensione sta arrivando, sua figlia sta per sposarsi, la sua ex moglie si è rifatta una vita mentre a lui è rimasto soltanto il lavoro. Questo è il suo ultimo caso: non può permettersi di commettere errori, di lasciare la strada aperta ai poliziotti corrotti, di sbattere in galera degli innocenti o di offendere la dignità dei morti.
Anche se non partecipa ai funerali delle vittime, Claudio sa qual’è il modo migliore per rispettare la loro memoria: affrontare i crimini come un problema da risolvere, non come un modo per fare carriera. La soluzione di un caso comporta dei sacrifici. La verità è l’unica risposta al crimine, al cinismo e alla morte.
Nel portadocumenti di Fausto Rossi c’è la pubblicità di una cartomante. La stessa pubblicità trovata nel portafogli di Renato Bianchini. Il banchiere suicida e l’ubriaco morto in una rissa da bar, e un indizio che li collega. La traccia che stava aspettando.
Claudio ride, nel silenzio notturno della questura di Siena.

Capitolo 4
L’Ispettore Martini visita l’Oracolo della Misericordia e impara una lezione.


Maria, l’Oracolo della Misericordia. Così c’è scritto sul campanello. È uno dei palazzoni popolari dei quartieri di Ravacciano, lontano dalle case studentesche e dagli alloggi dei banchieri. Non ci sono insegne, nè pubblicità: solo una scritta sotto al campanello, in mezzo a tanti altri nomi. Un appartamento come tanti, in mezzo a un quartiere come tanti.
Claudio si stringe il bavero del cappotto. Nonostante la pioggia abbia smesso di cadere dalla mattina, soffia un vento gelido. È solo un momento di tregua in una stagione fredda e umida. Quando suona il campanello, nessuno gli parla al citofono. La porta a vetri del condominio si apre con un ronzio metallico.
Claudio procede, guardandosi attorno con circospezione. Le due porte in fondo sono in penombra, mute e silenziose. Si dirige verso il piano superiore, dove trova una porta socchiusa, da cui esce della luce.
Entra nello studio della cartomante. All’interno della sala d’aspetto ci sono altre cinque persone, sedute su delle poltroncine di stoffa a quadri, in un pessimo stile degno degli anni ’80. Dietro a una scrivania siede una donna grassa, dai corti capelli neri e dal naso a patata. Sta scrivendo velocemente al computer. Quando Claudio entra nella sala, alza lo sguardo e gli rivolge un’espressione infastidita.
“Aveva un appuntamento?”
“Buonasera. No, non direi.” risponde lui, imbarazzato.
La donna appoggia i gomiti sulla scrivania e incrocia le dita. Sembra studiarlo con attenzione. Poi scrive qualcosa in un taccuino.
“Ci vorrà un po’. Può tornare verso le sette, se vuole.”
Claudio controlla l’orologio. Sono quasi le cinque.
“Non c’è problema. Aspetto qui.”
La segretaria non lo guarda neppure. Gli fa un breve cenno, poi torna a scrivere al computer. Claudio si mette a sedere su una poltrona, senza togliersi il cappotto. Nonostante la stufa accesa in un angolo, fa piuttosto freddo. Approfitta dell’attesa per studiare con attenzione gli altri clienti.
C’è un ragazzo magrissimo dai capelli a spazzola, con una camicia a quadri, dalla faccia smunta e sciupata. C’è una donna con la sindrome di down, accompagnata da una ragazza piena di lividi sulle braccia. C’è un uomo dalla barba lunga, con gli abiti logori, sporco e puzzolente. E infine un ragazzino in evidente stato confusionale, che dondola avanti e indietro, tenendosi la testa tra le mani. Sembra un drogato in astinenza, oppure un malato mentale; mormora frasi sconnesse, insensate, tenendo gli occhi fissi a terra.
Tutti stanno in religioso silenzio. La ragazza legge un giornale di gossip, mentre lo smilzo armeggia con un game boy. Claudio fa per accendersi una sigaretta, ma la segretaria alza lo sguardo verso di lui e fa un colpetto di tosse. Claudio rimette la sigaretta nel pacchetto e si dedica ai volantini pubblicitari sparsi sul tavolino.
Oltre ai biglietti da visita che ha già trovato dentro ai portafogli dei cadaveri, ci sono anche dei volantini pieni di immagini sacre, cornetti e portafortuna. I servizi proposti sono numerosi: dalla predizione del futuro alla cura delle malattie croniche, dalle tecniche di rilassamento ai numeri fortunati per giocare al lotto.
I clienti escono uno dopo l’altro dall’ufficio della cartomante. A Claudio non sembra che siano più felici di prima, nè più in salute. L’ultimo ragazzo continua a mormorare frasi sconnesse e a tremare, sfuggendo ogni contatto visivo.
Sono passate da poco le sette quando arriva il turno di Claudio. Entra in un ufficio piccolo, interamente ricoperto con carta da pareti a fiorellini. Le finestre sono chiuse; la luce è data dalle candele accese sulla scrivania e agli angoli della stanza. Un acre odore di incensi gli pizzica il naso.
“Buonasera. Prego, si accomodi.”
La cartomante è un’anziana donna dalla voce melodiosa. Ha un corpicino minuto avvolto da un lungo abito azzurro, ricamato con finiture dorate. Sopra i lunghi capelli neri porta un velo trasparente, ornato da perline. Indossa collane, anelli e bracciali, più addobbata di un albero di Natale.
“Prego. Signor…?”
Claudio si siede davanti a lei e tira fuori il distintivo.
“Claudio Martini. Questura di Siena. Ispettore di polizia.”
Il suo tono è calmo, ma duro e inflessibile. La donna non sembra gradire. Si acciglia, si ritrae. Il suo viso è perfettamente curato, con poco trucco. Lo fissa con i suoi occhi neri e profondi.
“Che cosa… che cosa vuole?”
“Voglio solo farle delle domande. Con la massima tranquillità.”
“Sono… in arresto?”
“No, no. Stiamo solo parlando.”
“Io… c’è un mandato? Voglio vedere il mandato!” la voce si fa più alta. La donna si agita sulla sedia, nervosamente.
Claudio alza le mani e abbozza un sorriso.
“Si calmi. Nessun mandato, nessun arresto. Solo una chiacchierata informale e pacifica.”
La donna lo fissa, sospettosamente. Comincia a mischiare un mazzo di carte. Claudio si esibisce in un altro sorriso forzato. Non ha alcun mandato, nè lo otterrebbe. Nessuno sa che si trova lì: nè il capo, nè Giuseppe, nè Angelo. Anzi, se lo venissero a sapere, gli farebbero una bella lavata di capo.
“Sto cercando informazioni utili per alcuni indagini in corso. – spiega, cercando di rassicurarla – Le saremo molto grati se decidesse di collaborare con noi.”
“Non ho nulla da nascondere.”
“Appunto.”
Claudio si guarda attorno: sulla parete dietro alla cartomante troneggiano dei quadri dedicati alla Madonna, a Padre Pio, al Dalai Lama e a un santone cinese di cui non conosce il nome. Sulla scrivania fanno bella mostra un mazzo di carte napoletane, uno di tarocchi francesi e una ciotola piena di biglie di vetro. Sotto alle scatole di incensi sporgono una pila di fascicoli, quaderni e libretti.
“Che cosa fa qui?” le chiede, dopo qualche secondo.
“Ci lavoro.”
“Che cos’è? Legge le carte alla gente?”
“Anche. – risponde lei, piuttosto infastidita – Predico il futuro. Aiuto le persone.”
“E cura anche le malattie? Le malattie gravi?”
“Curando lo spirito si può curare anche il corpo.”
Claudio fa un sorrisetto ironico, anche se non riesce a emulare quelli di Angelo. Non ha mai creduto alla cartomanzia, alla stregoneria o ai rimedi delle medicine orientali. Gli sono sempre sembrate delle fandoine, utili per abbindolare gli sciocchi e raggirare le persone disperate. Le città sono piene di ciarlatani che si spacciano per maghi, sacerdoti o quant’altro. Fingono di curare le persone e di predire il futuro, ma sono soltanto menzogne per estorcere dei soldi. Truffe che approfittano della debolezza dei malati, degli ignoranti o dei disperati.
“So cosa sta pensando.” dice la donna, guardandolo male.
“Legge anche nel pensiero?” scherza lui.
“Non sono una truffatrice. Io dono conforto.”
“Non lo metto in dubbio. Non sono qui per giudicare.”
La rassicurazione non sembra ottenere l’effetto desiderato. Anzi, dalla faccia della donna, sembra ottenere l’effetto opposto. Claudio non è mai stato bravo con le parole, nè con la comunicazione in generale. La donna scosta il mazzo di carte e stringe i pugni sul tavolo.
“Cosa crede? So che ci sono dei truffatori, nel mio mestiere. Ma io sono sincera. Schietta. Sono arrivata fino a qui perché ho donato conforto alle persone.”
“Conforto?”
“Sì. Che cosa crede? Non posso curare il cancro. Non sono un medico. Non sono una santa che fa miracoli. Ma posso aiutare le persone a stare meglio con loro stesse. Curando lo spirito, si affrontano meglio le malattie. Si aumenta l’efficacia delle cure mediche. È dimostrato, sa?”
“Non volevo mettere in dubbio…”
“Da me vengono casi disperati! – continua lei, alzando la voce – Persone abbandonate dalla società! Drogati, emarginati, reietti. Criminali, a volte. Gente che ha perso tutto. Gente che ha bisogno di conforto. Questa è la più grande misericordia: donare conforto ai deboli, ai derelitti, agli infelici. Questo è la più alta forma di carità.”
“Guardi che non la stavo accusando! – dice lui, sbuffando – Sono qui per un altro motivo.”
“E quale sarebbe?”
Claudio tira fuori dal taschino le foto dei due cadaveri. Le allunga verso la donna, scostando i tarocchi dal tavolo.
“Ha mai visto questi uomini? Sono stati suoi clienti?”
La donna socchiude gli occhi, studiando le fotografie. Poi scuote la testa.
“Mi pare di no. Vedo tante persone. Non saprei…”
“Si sforzi, la prego.”
“Questo… no, mai.” dice, scartando la foto del banchiere.
“E l’altro?”
“Forse… sì. Mi dice qualcosa. Un uomo divorziato, rimasto solo. Sì, è lui. È stato qui una volta, un mese fa.”
“Che cos’ha fatto?”
“Ho cercato di ridargli fiducia nel futuro. Gli ho letto la mano e ho fatto alcune predizioni con i tarocchi. Non amava il suo lavoro, non riusciva a dormire tranquillo. Gli ho detto che non doveva arrendersi, che si sarebbe rifatto una famiglia, che aveva tanto tempo davanti a sè.”
“Finchè c’è vita, c’è speranza?”
“Sì. È una banalità, detta in questa maniera. Ma le persone hanno bisogno di sentirselo dire, a volte. Soprattutto quando sono sole, deboli e depresse.”
“E lui si è sentito meglio?”
“Non lo so. Non è più tornato.”
“Non c’è nient’altro che ricorda?”
“Mi spiace. Neppure il nome.”
“Ha un fascicolo? Nel computer della sua segretaria, magari?”
“No. Solo pratiche amministrative. Non sono un medico.”
Claudio le fa un cenno d’assenso, poi riprende le fotografie. La donna gli sembra sincera, purtroppo. La pista che credeva di aver trovato si è subito chiusa, impedendogli di riaprire le indagini sugli ultimi casi.
“È tutto?” gli chiede la donna, incrociando le mani sotto il mento.
Claudio decide di fare un ultimo tentativo. Per cuoriosità, non per scrupolo. Tira fuori una foto scattata al lavoro, durante il capodanno precedente. Poi le indica il volto di Angelo.
“Quest’uomo? È mai venuto da lei?”
La donna stringe gli occhi, pensierosa. Poi annuisce.
“Sì. O meglio… no. Non è mai venuto qui. Ma l’ho visto di recente, assieme a un mio cliente.”
“Davvero?”
“Sì. Un mese fa, forse. Prima dell’altro uomo.”
“Dove?”
“Nel carcere di San Gimignano. Durante l’orario delle visite.”
“E chi stava visitando?”
“Niccolò Bandini. Era tra i miei clienti, prima di finire in galera. Un povero ragazzo rimasto orfano… uno sbandato. È finito in un brutto giro e l’hanno sbattuto dentro. Mi dispiace per lui. Forse non ho fatto abbastanza.”
Claudio ricorda quel nome, ma non riesce a collegarlo a nessuna faccia. Forse è uno della banda della Valdelsa legata al traffico di droga, che lui stesso ha contribuito a sbattere in galera qualche mese prima. Ma non ricorda ulteriori indagini o interrogatori in quella direzione. Soprattutto, non gli vengono in mente dei validi motivi per una visita del suo collega di cui nessuno sapeva nulla.
Nonostante tutto, Claudio sente di muoversi nella direzione giusta. Il caso non è ancora chiuso. La pensione è ancora lontana.
“Grazie, Maria. Buonasera.”
“Buonasera a lei.”
Lascia la cartomante con una donna calva ed emaciata, con il fisico distrutto dalla chemioterapia. Finalmente può uscire in strada, e trovare un po’ di conforto in una sigaretta.
Claudio non è un uomo che ama stare davanti ai riflettori. Rifugge gli impegni sociali, lascia ai colleghi gli onori della stampa e del pubblico, evita di mantenere i rapporti con le autorità politiche. Si limita a fare il suo lavoro e a vivere la sua vita, mantenendo quanto più possibile le distanze dagli altri.
Anche quella mattina, Claudio preferisce dedicarsi al lavoro piuttosto che agli obblighi sociali. Il capo va avanti e indietro per l’ufficio con un sorriso smagliante in volto; distribuisce complimenti, strette di mano e amichevoli pacche sulle spalle.
“Inquietante. – commenta Giuseppe – Quando è così sorridente, è anche peggio del solito.”
“Dici?”
“Sì. Se non manda affanculo qualcuno, non è il capo. È un sosia.”
E invece Romeo Bastreghi, capo questore di Siena, continua a sorridere. Angelo si presenta in perfetto orario in ufficio, con giacca e cravatta, in tenuta impeccabile.
“Eccoti! Senza di te non potevamo andare!” dice Romeo, abbracciandolo.
“Grazie, capo.”
Romeo gli fa l’occhiolino, poi gli dà una poderosa pacca sulla spalla. Quindi batte le mani verso gli altri:
“Su, su! Andiamo! Non facciamo aspettare il sindaco!”
Angelo si aggiusta il colletto e la cravatta, quindi rivolge un sorriso a Claudio, a metà tra una smorfia di fastidio e un ghigno di derisione. Claudio non capisce le sue reali intenzioni, come al solito. Si limita a salutarlo con un cenno della mano, poi si getta nuovamente in mezzo ai verbali.
“Ciao, Claudio. – dice Giuseppe – Se cambi idea, siamo in Piazza del Campo.”
“No, grazie. Voglio finire di esaminare queste carte.”
“Come vuoi tu.”
Il capo esce dalla questura tra mille sorrisi, seguito da Angelo e Giuseppe. Il sindaco di Siena ha organizzato un evento pubblico nel palazzo del comune, per premiare la questura per gli ultimi grandi successi conseguiti: l’operazione contro le bande mafiose nella Valdelsa della primavera precedente e la rapida soluzione del caso del banchiere suicida. Un ricevimento in pompa magna, con giornalisti e autorità politiche. Il tipo di evento adatto ad Angelo, insomma, e da cui Claudio si è sempre tenuto lontano.
In virtù della sua anzianità come ispettore, Claudio avrebbe tutto il diritto di partecipare; tuttavia, preferisce rimanere in disparte, come ha fatto per tutta la sua vita. Preferisce rimandare al futuro i rapporti sociali e le occasioni ufficiali. Prima della pensione, vuole risolvere con assoluta certezza gli ultimi casi.
Ed è proprio il fascicolo dedicato all’operazione in Valdelsa a fornirgli delle informazioni interessanti sui casi a cui sta lavorando. Niccolò Bandini, il detenuto di cui gli ha parlato la cartomante, è stato uno dei quattordici arrestati su cui avevano lavorato Claudio e Angelo, membro di una banda di criminali legati al traffico di droga e di armi, in stretti rapporti con la camorra napoletana.
Stando ai rapporti, Angelo non avrebbe motivo di interrogare ulteriormente Niccolò, a più di sei mesi dalla soluzione del caso. Claudio vorrebbe chiedere chiarimenti al collega e al capo, ma nessuno sa della sua visita alla cartomante. E anche quella è una giornata adatta alle indagini solitarie.
Piuttosto che partecipare ai festeggiamenti della questura e godersi i riflettori dei media senesi, Claudio preferisce fare una visita al carcere di San Gimignano.

Capitolo 5
Dopo la visita al carcere di S.Gimignano l’ispettore Martini chiude una fase della sua vita.

A San Gimignano nevica da più di due ore. Una cittadina medievale arroccata in cima a una collina della Valdelsa, a metà strada tra Siena e Firenze. I fiocchi di neve stanno già ricoprendo i tetti e le cime delle torri, e non accennano a diminuire d’intensità.
Claudio parcheggia nei posti riservati ai pubblici ufficiali. Si stringe nel suo cappotto invernale e corre a ripararsi sotto il cornicione delle mura esterne del carcere. Si fuma una sigaretta, prima di entrare. Su Siena si stava abbattendo una pioggia scrosciante, mista a nevischio; a San Gimignano, invece, la neve è soffice e candida, talmente bella da sembrare finta. Quando Claudio getta il mozzicone, il tetto della sua auto è già imbiancato.
All’interno del carcere si dimentica subito della neve. Il mondo esterno si ferma di fronte a quelle sbarre: la prigione è un mondo a parte, un luogo che non è un luogo, una realtà senza identità.
“Ispettore Martini. Buonasera.” gli dice una guardia, controllando il suo tesserino.
I detenuti sono all’interno delle loro celle. Osservano la neve che cade dal cielo, in religioso silenzio. I passi delle guardie rimbombano lungo gli alti corridoi. Sembrano un’offesa, in mezzo a quel silenzio.
Claudio si tiene alla larga dalle celle. Alcuni di quei detenuti li ha arrestati lui stesso, nel corso degli anni. Le luci neon illuminano pareti grigie e stanze asettiche, avvolte dal puzzo di muffa e di fumo.
Quando chiede di parlare con Niccolò Bandini, non lo portano in nessuna cella. Le guardie lo conducono in un ufficio, oltre l’infermeria. Riccardo Nenci, agente di polizia penitenziaria: il nome scritto fuori dalla porta.
“Buonasera.”
L’uomo gli offre una robusta stretta di mano. È un agente sulla quarantina, con folti baffi neri e la calvizie incipiente. Basso e grassoccio, sorseggia lentamente il suo caffè.
“È arrivato tardi, caro ispettore Martini.”
“Perchè?”
“Il detenuto Bandini è morto due giorni fa.”
Claudio ha un sussulto. Si allunga sulla sedia e sospira amaramente. Ancora una volta, la pista che credeva di aver trovato si chiude immediatamente. Ancora una volta è costretto ad attendere una nuova piega degli eventi, senza poter far nulla.
“Ho finito di compilare i referti questa mattina.” aggiunge Riccardo, indicando alcune scartoffie accatastate nell’angolo della scrivania.
“Com’è morto?”
“C’è stata una rissa, tre giorni fa, con gli altri detenuti.”
“Lo hanno ammazzato di botte?”
“No, in realtà. L’abbiamo portato in infermeria, ma non siamo riusciti a salvarlo. È morto dopo una notte di agonia.”
“Per le percosse subite, quindi.”
“Sì. Quando ti spappolano il fegato, è difficile riprenderti, se sei già messo male.”
Claudio si gratta il mento, pensieroso. Vorrebbe saperne di più su quella storia, ma non può svolgere nessuna indagine ufficiale. Le parole del Nenci sono tutto ciò a cui può aspirare, e Claudio non è mai stato bravo a manipolare le persone. Soprattutto gli altri agenti di polizia.
“Posso parlare con gli altri detenuti? Quelli che l’hanno picchiato?”
Riccardo socchiude gli occhi, rimanendo in silenzio. Poi lo squadra sospettosamente.
“Perché? Ci sono già delle indagini in corso. Non è un caso di sua competenza.”
“Attenderò i verbali, allora.”
“Perché voleva parlare col Bandini?”
“Ho paura che ci sia una nuova banda in circolazione, nel senese. Volevo fare una chiacchierata con lui a proposito dell’operazione in Valdelsa.”
“Ci sono tutti i fascicoli degli interrogatori. Quello che sapeva, l’ha detto.”
“Era solo una chiacchierata informale, tutto qua.”
Riccardo soppesa lo sguardo di Claudio per qualche attimo, poi fa un cenno d’assenso. Accende la lampada sulla scrivania, si infila un paio di occhialetti e si mette a leggere dei documenti. Poi riprende a parlare con Claudio, senza guardarlo negli occhi:
“Posso assicurarle che non c’è nulla di strano in questa vicenda. I detenuti muoiono, a volte. I criminali rimangono criminali.”
“Non volevo affermare che la polizia penitenziaria avesse delle responsabilità…”
“Ci saranno delle indagini per accertarlo. Cosa crede? – strilla l’altro, buttando via i documenti e facendosi più nervoso – Noi facciamo il nostro lavoro, tutti i giorni. Sempre in mezzo alla feccia della società. In mezzo agli stupratori, agli assassini, ai mafiosi e ai pedofili. Crede che sia facile? Voi li arrestate, ma noi dobbiamo convivere con loro. Passiamo più tempo con questa gente che con le nostre famiglie!”
“Mi scusi, io…”
“Ci sono già abbastanza giornalisti che ci danno addosso. Siamo costretti a stare con questa gente, ma non li ammazziamo mica. Sono criminali. A volte si ammazzano tra di loro.”
Claudio alza le mani, cercando di rassicurarlo. L’uomo fa un profondo sospiro. Quindi fa un cenno alla guardia dietro alla porta:
“Giorgio. Portami un altro caffè, per favore.”
“Subito.”
La guardia corre via. Claudio aspetta che Riccardo si calmi. Gli offre una sigaretta.
“No, grazie. Non fumo.”
Claudio se ne accende una, rimanendo in silenzio. Dopo qualche secondo, Riccardo dice:
“Comunque, il Bandini è sempre stato un elemento problematico.”
“In che senso?”
“Un tossico rimane un tossico, fino alla fine. Non è mai uscito completamente dalla droga.”
“Anche in carcere?”
“Non gira droga qui. Ma le persone rovinate dalla droga… sono rovinate per sempre.”
“Non credo che valga in ogni caso.”
“Nel caso del Bandini, sì. Non era la prima volta che lo prendevano a botte.”
“In che senso?”
“Nel senso che è già successo altre tre volte.”
“Lo volevano morto, allora.”
“No. Non credo. È sempre stato separato dal resto dalla banda. Dopo la prima volta lo abbiamo messo in un’altra cella. Ma è successo ancora, con altri detenuti. Quelli di prima finivano in isolamento, e lui si faceva picchiare da altri.”
Claudio si gratta nuovamente il mento. Il Nenci si liscia i baffi, sospirando. La guardia gli porta il caffè, nero e bollente.
“Credo che amasse farsi picchiare dagli altri. Per sentirsi vivo, capisce?”
“No.”
“È normale. Voi vivete là fuori, noi qua dentro. Dovrebbe vivere qui per capire certe persone.”
Claudio annuisce, seppur titubante. Riccardo soffia sul caffè e lo beve d”un sorso.
“Ci sono istituti di cura, per persone del genere. Se era un detenuto così problematico…”
“Abbiamo fatto il possibile. – lo interrompe Riccardo – Con i fondi e il personale che abbiamo a disposizione, abbiamo fatto il possibile. Se gli assistenti sociali della provincia non sono all’altezza, non è colpa nostra.”
“Ci sono delle indagini…”
“Ci sono delle indagini in corso. Esatto. Da parte degli ispettori competenti.”
“Della mia questura?”
“No. Indagini interne. Eventualmente, da parte degli ispettori del ministero.”
Claudio annuisce di nuovo. Spegne la sigaretta nel posacenere, pensando a cosa dire. Non sopporta l’idea di aver raggiunto un vicolo cieco, ma non crede di poter ottenere di più. Un ultimo tentativo, poi sarebbe tornato a Siena.
“Posso consultare l’elenco dei visitatori del detenuto?”
“Mi dispiace. È materiale riservato, senza le necessarie autorizzazioni. Fa parte delle indagini.”
“Mi basta sapere se uno dei miei colleghi ha fatto visita al Bandini, ultimamente.”
Riccardo lo fissa con sospetto, per l’ennesima volta. Poi prende un fascicolo dalla pila dei documenti e lo consulta sotto la luce della lampada. Infine, scuote la testa.
“No. Nessuno dalla questura di Siena.”
“Sicuro?”
L’occhiataccia che gli rivolge il Nenci è sufficiente a farlo desistere. Claudio si alza dalla sedia e fa per andarsene.
“Non si preoccupi troppo. – dice Riccardo – Come le ho detto, è quello che il Bandini stava cercando.”
“Non saprei. Neppure quelli che vogliono suicidarsi vogliono veramente morire. Nessuno desidera la morte.”
“Forse nel suo mondo, ispettore. A volte, la morte è l’unica fonte di conforto per una vita senza più speranza.”
Claudio non si sente in dovere di rispondere. Saluta cortesemente l’ufficiale Nenci, quindi si lascia accompagnare dalle guardie verso l’uscita. Camminando di fronte all’infermeria, immerso nei suoi pensieri, si scontra inavvertitamente con una giovane infermiera in abito bianco. Alla ragazza cade una scatola di medicinali.
“Oddio. Scusami.”
Le guardie aiutano l’infermiera a riprendersi. Claudio prende la scatola da terra e gliela porge, scusandosi nuovamente. La ragazza ha dei lunghi capelli corvini raccolti in una coda; il suo volto è giovane, ma i suoi occhi sembrano incredibilmente anziani. Occhi velati di tristezza, cupi e pietosi. Gli stringe la mano tra le sue, mentre riprende le medicine: il suo tocco è caldo e gentile. Claudio fa per dirle qualcosa, ma l’infermiera se ne va per la sua strada.
Le guardie lo conducono all’ingresso del penitenziario. La neve ha ormai ricoperto tutta la cittadina, compresa la sua automobile. Claudio si accende un’altra sigaretta e osserva i fiocchi di neve, pensieroso. Anche in un posto del genere c’è bisogno di conforto. Anche in un mondo del genere, la morte può valere quanto la libertà.

Claudio ha le mani grandi. Mani grandi e forti, forti perchè grandi. Non le ha mai usate fuori dal suo lavoro. E, come ispettore, gli è capitato soltanto in rari casi di doverle utilizzare.
Claudio ricorda quella volta in cui ha placcato un ladro in fuga, direttamente sulla scena del crimine. Ma sono passati vent’anni, a quel tempo era solo un agente alle prime esperienze, e la sua ex-moglie l’aveva elogiato come un eroe dei telefilm americani.
Poi aveva sferrato un pugno a un criminale, perchè durante un interrogatorio aveva rubato la pistola a un agente e minacciava di fare qualche pazzia. Anche quella volta aveva ricevuto elogi: ma dal capo, non da sua moglie, perchè era già divorziato.
Claudio non ha mia usato quelle mani grandi e forti, da piccolo. Come un gigante buono, ha sempre preferito tirarsi indietro di fronte alle risse e alle situazioni tese. Claudio preferisce la diplomazia alla violenza, preferisce la calma alla forza.
Eppure quello non è un giorno come gli altri.
È iniziato con un caffè da Nadia, con due zollette di zucchero. Giuseppe ha decantato le lodi di Giorgia e delle sue curve sinuose. Luca si è lamentato delle pattuglie notturne e del traffico di droga in aumento. Il capo ha mandato a quel paese tutti i giornalisti di Siena, perchè lo hanno relegato in quarta pagina.
Nonostante le premesse, quello non è un giorno normale, e Claudio lo sa bene.
Angelo arriva in ufficio con il suo completo migliore, distribuendo sorrisi a tutti. Si mette a sedere dietro la sua scrivania, riponendo con cura il soprabito sull’attaccapanni. Accende il computer, nuovo di zecca; tira fuori la penna lussuosa e firma dei documenti. Quindi fissa l’appuntamento con i giornalisti durante l’aperitivo serale.
Claudio si mette davanti alla sua scrivania. È nervoso, non sa come affrontare la situazione. La pista che stava seguendo si è rivelata un buco nell’acqua; si sente bloccato, deluso, senza una traccia da seguire. Ma non vuole rinunciare alla verità, a costo di compiere qualche sacrificio.
“Cosa c’è?” gli chiede Angelo, senza alzare gli occhi dai documenti.
“Sei andato al carcere di San Gimignano, di recente?”
“No.”
Claudio annuisce. Sulla scrivania c’è un vasetto di terracotta dipinto con gli acquarelli; sopra c’è scritto “Al papà migliore del mondo”. Accanto c’è la fotografia di quella che è la bambina più brava e più bella delle scuole elementari senesi.
“E la cartomante di Ravacciano? L’hai mai incontrata?”
“Non credo. Incontro tanta gente, sai. È la vita.”
Angelo gli rivolge uno dei suoi insopportabili sorrisetti. Claudio non capisce se lo sta prendendo in giro o se è sinceramente disinteressato alla questione. Angelo mette via i documenti e si alza in piedi; fa il giro e si mette accanto a lui, appoggiandosi alla scrivania e incrociando le braccia al petto.
“Che indagini stai facendo?” gli chiede, facendosi più serio.
“I miei ultimi casi. Voglio vederci chiaro.”
“Sono risolti. Non pensarci più. Pensa alla tua vita.”
“La mia vita non è affar tuo.”
“Neppure tuo, a quanto pare.”
Claudio trattiene a stento un gesto rabbioso. Angelo torna a sorridere.
“Dovresti pensare alla pensione, piuttosto che mandare avanti indagini senza permesso. Il capo non ne sarebbe felice.”
Claudio non si trattiene più. Colpisce Angelo con un pugno in piena faccia. Il collega si rovescia sulla scrivania, facendo cadere i regali della figlia e le pile di documenti.
Quella non sembrava affatto una giornata come le altre. E ora Claudio capisce perché.

Capitolo 6
L’Ispettore Martini viene costretto ad accettare la pensione anticipata.


Claudio ha sempre rispettato l’autorità. Per molte persone, lui stesso è un rappresentante dell’autorità, in virtù del suo impiego come ispettore di polizia. Quando estrae il tesserino, tutti gli portano rispetto: si preoccupano di apparire encomiabili di fronte a un pubblico ufficiale, nascondono i vizi ed esaltano le virtù. Alcuni suoi colleghi approfittano di questa situazione, mostrandosi alla società civile in maniera arrogante e presuntuosa, fino a sfiorare gli abusi di potere.
Claudio non è come loro. Pretende il rispetto altrui in virtù delle sue qualità personali e professionali, non per via del distintivo da poliziotto. Non ritiene di rivestire un ruolo privilegiato: lavora ogni giorno della sua vita con tenacia e sacrificio, senza chiedere nulla in cambio. Neppure il rispetto incondizionato.
Infatti, Claudio rispetta l’autorità ed è sempre pronto a mettersi a disposizione di coloro che occupano un gradino più alto di lui nella scala gerarchica. Grazie al suo carattere schivo, modesto e disciplinato, è riuscito a scalare a sua volta i gradini della scala sociale, da semplice agente di polizia a ispettore anziano.
La sua non è stata una carriera fulminea come quella di Angelo, anzi: decine di colleghi gli sono passati davanti, durante quegli anni. Magari perché avevano più appoggi politici, magari perché erano più bravi a vendere la propria immagine, magari perché se la facevano coi capi. Claudio ha atteso in silenzio il suo momento, senza mai creare problemi all’autorità. Se avesse contestato il sistema, pur facendone parte, si sarebbe sentito ipocrita: ha sempre accettato con spirito di sacrificio ogni prepotenza, senza mettere in discussione l’autorità, rimanendo saldo nei suoi principi e coltivando le sue virtù.
Neppure da piccolo contestava l’autorità. Il suo maestro di violino, durante l’adolescenza, aveva preferito sostenere un’altra allieva all’esame per il conservatorio di Firenze. Claudio si reputava più bravo, ma la compagna di corso era la figlia di un assessore provinciale e aveva due occhioni azzurri a cui era difficile dire di no. Claudio era rimasto al palo per un anno, mentre la compagna accedeva alle scuole più prestigiose. Pochi mesi dopo aveva rinunciato al violino, assecondando le pressioni della madre per entrare nei corpi militari dello stato. Adesso il suo violino giace inutilizzato in cantina, e della compagna non ha più notizie da anni.
Quella volta non aveva fatto nulla di male per meritarsi quel trattamento da parte del maestro di violino. Questa volta, invece, Claudio è pienamente cosciente delle sue colpe.
“Sei andato fuori di testa?”
Romeo è una furia. Getta via documenti, si sbraccia, sbatte i pugni sul tavolo. Urla senza ritegno, prendendosela con gli investigatori anziani, le nuove reclute, i politici, i giornalisti e quella stronza della suocera.
“Ma come ti è venuto in mente? – gli sbraita contro – Perchè hai dato un cazzotto ad Angelo?”
“È stato un errore.”
“Cazzo se lo è stato! Un errore? Ti sei bevuto il cervello!”
La difesa di Claudio è debole. Affronta il capo con gli occhi bassi e le mani in tasca, senza cercare di calmarlo. Ha profondo rispetto dell’autorità, e sa di aver sbagliato. Non intende fuggire dalle sue responsabilità.
“Ti sei rincoglionito. Sì. È l’unica spiegazione. Sei andato fuori di testa e non capisci più niente.”
“Mi ha fatto innervosire e l’ho colpito.”
“Non è una buona scusa! È una cazzata!”
“Lo so. Ma è la verità.”
“La verità è che questo lavoro non fa più per te!”
Claudio non dice nulla. Non può neppure accendersi una sigaretta, perché ha dimenticato di comprarsi un nuovo pacchetto. Il capo lo trattiene lì da due ore e non ha ancora finito di sfogarsi.
“Non posso difenderti. Lo capisci, questo?”
“Sì.”
“Forse non te ne fregherà più niente perchè sei a un passo dalla pensione, ma qui ci sono delle regole da rispettare. Delle regole! La mia è una questura seria. Non tollero certi atteggiamenti.”
“Lo so.”
“Vuoi una denuncia? – lo incalza Romeo, alzando ancora di più la voce – È questo che vuoi? Rovinare una carriera come la tua, a un passo dalla pensione?”
Claudio continua a tacere. Non cerca difese inutili, non inventa menzogne per salvarsi il culo. Rispetta l’autorità e rispetta sè stesso.
“Va bene. Chiudiamola qui. – dice Romeo, sospirando – Prendi le tue cose e vattene.”
“In che senso?”
“Nel senso che te ne vai a casa un mese prima. Ferie pagate. Pensione anticipata. Hai capito il senso?”
Claudio è confuso. Rimane attonito. Adesso che vorrebbe parlare, non sa cosa dire.
“Ma… io… io…” balbetta.
“Vedi che sei rincoglionito? Prendi le tue cose e vai a casa. Non voglio altri casini in questura.”
Claudio non ha la forza di dire nulla. Romeo si fa ancora più calmo:
“Hai bisogno di riposo, Claudio. Hai lavorato troppo. Il nervosismo può solo peggiorare, in questi mesi… dammi retta, è la soluzione migliore. Pensione anticipata. Il sogno di molti.”
“Non il mio.”
“Consideralo come un periodo di prova. Avrai modo di abituarti alla pensione. Non ti vieterò l’ingresso alla questura… ma niente casi. E niente ufficio. Consideralo un favore, non una punizione.”
Forse lo è. Claudio capisce il senso di quel favore, sì, ma per lui è come una punizione. Senza il lavoro, non gli rimane più nulla. Non può sacrificare anche questo.
“Prenditi del tempo per te. Per la tua famiglia.”
“Ma io ho ancora dei casi! Prima della pensione voglio finire di…”
“Non mi interessa! – lo interrompe Romeo – Passa tutto a Giuseppe. Ci penserà lui a portarli avanti. O ad archiviarli, se sono già chiusi.”
“E… e io?”
Quello di Claudio è un solo filo di voce. Davanti a lui c’è il questore capo di Siena, ma è come se fosse il suo vecchio maestro di violino.
“E io?”
Le parole di Romeo suonano come una sentenza.
“Puoi vivere anche senza. Devi vivere anche senza.”

La pioggia imperversa per le strade di Siena. Pioggia intensa, fitta e incessante. La neve ha risparmiato la città, a differenza delle colline della Valdelsa, ma la pioggia e il vento gelido stanno accompagnando tutta la provincia verso il Natale.
Claudio arriva al bar di via Montanini con un’ora di anticipo. Quella mattina si era tagliato con il rasoio e aveva fatto colazione da Nadia, come al solito; poi aveva messo piede in questura, spinto dalla forza dell’abitudine, dimenticandosi del suo pensionamento anticipato.
Un’occhiataccia del capo è bastata ad allontanarlo dal suo ex-ufficio. Claudio ha passato tutto il giorno in giro per la città, fumando una sigaretta dietro l’altra, senza sapere cosa fare.
Al bar ordina un caffè con due zollette di zucchero. Quindi beve un amaro e si fuma una sigaretta. La barista parla del brutto tempo, cercando di mostrarsi cordiale, ma Claudio non le risponde. Beve due bicchieri di grappa per ammazzare il tempo, senza spiccicare una parola.
Chiara arriva in perfetto orario. Appoggia l’ombrello vicino al portone e si toglie il cappotto. Claudio si è messo a sedere a un tavolo appartato, assieme al terzo bicchierino di grappa.
“Babbo! Sei già qui?”
Claudio abbozza un sorriso. Lei gli stampa un bacio sulla guancia e si mette a sedere di fronte. Fa un cenno alla barista, che comincia a prepararle un cocktail.
“Dov’è Marco?”
“Non è potuto venire. Ti manda i suoi saluti.”
“Che è successo?”
Chiara tira fuori un pacchetto di Camel Light dalla borsa e si accende una sigaretta.
“Emergenza di lavoro. È stato richiamato per un’operazione d’urgenza.”
“Può succedere.”
Chiara si arriccia i capelli, sospirando. Claudio intuisce il suo fastidio.
“Già. È destino che gli uomini della mia vita mettano sempre il lavoro al primo posto.”
“Dai, non fare così. Ci sono delle urgenze che…”
“Sì, sì. Dai, lasciamo stare.”
La barista porta un aperitivo a Chiara, che ringrazia con un sorriso. Claudio osserva con attenzione la figlia, senza dire nulla. I capelli ricci, raccolti in una coda; gli stessi occhi della madre, scuri e sfuggenti; il naso piccolo e le labbra carnose, con un accenno di rossetto.
“La nonna mi ha raccontato le ultime novità. Sono stata a pranzo da lei, oggi.”
“Che ti ha detto?”
“Della tua pensione anticipata. È giusto così, dai.”
Claudio scrolla le spalle. Anche sua madre gli aveva detto le stesse cose, al telefono. Le donne della sua vita non sembrano apprezzare la sua dedizione al lavoro, ma lui non è dello stesso avviso.
“Adesso avrai più tempo libero. Potrai pensare a te stesso.”
Claudio annuisce, quindi butta giù d’un sorso la grappa. Chiara gli offre una sigaretta, ma lui rifiuta; tira fuori il suo pacchetto di Marlboro rosse, che fuma da quarant’anni.
“E il lavoro?”
“Devo cominciare il praticantato da infermiera, all’ospedale delle Scotte. Gli esami sono andati bene.”
“Giuliano ha messo una buona parola?”
“Non lo so. Comunque, sono nel dipartimento di Marco.”
“Sono contento per te, è una bella cosa.”
Chiara abbozza un sorriso, quindi spegne il mozzicone di sigaretta. Fissa il padre negli occhi, facendosi più seria.
“Dovresti andare a trovare la nonna, sai. Almeno per il suo compleanno.”
“Lo so. Ho avuto altro da fare.”
“Ora hai tanto tempo libero. La nonna è vecchia e non sta tanto bene. È sempre sola.”
“Ha tre gatti.”
“Appunto. Perché è sempre sola.”
Claudio annuisce. Spegne a sua volta la sigaretta nel posacenere. Sente un leggero cerchio alla testa, segno che l’alcool di quel pomeriggio comincia a fare effetto. Fuori scroscia con maggior vigore, e i clienti entrano nel bar coi vestiti zuppi.
“Comunque… cos’è che volevi dirmi? Non giriamoci attorno.”
“Non ci sto girando attorno. È una bella cosa, sai.”
Claudio osserva il volto sorridente della figlia. Già immagina le parole che sta per sentire. Un matrimonio da preparare, un altare a cui farsi accompagnare, i regali, gli anelli, il pranzo coi parenti e poi il viaggio di nozze.
Chiara si arriccia i capelli, imbarazzata. Parla piano, con un sorriso dolce stampato sul volto. Claudio rimane attonito, di nuovo.
“Sono incinta.”

Capitolo 7
L’Ispettore Martini continua le sue indagini alla ricerca della verità.

Il ticchettio dell’orologio sopra il caminetto risuona lugubremente nella sala. È notte fonda, e Claudio siede sulla poltrona. Fissa il caminetto, spento. È sempre stato spento, almeno da quindici anni. Non ha più tempo, nè motivo, per accenderlo.
La casa è immersa nel silenzio, a parte il ticchettio snervante dell’orologio. Claudio sorseggia un bicchiere di grappa. Uno dei tanti regali dei colleghi e dei parenti che ha accumulato in cantina col passare del tempo. Ha un sapore forte e un retrogusto dolce. Ne manda giù un bicchiere dopo l’altro.
Fuori piove e non accenna a smettere. La luce dei lampioni illumina flebile le tende del salotto. Claudio socchiude gli occhi e si appoggia una mano alla testa. Riflette sugli ultimi casi, cercando di trovare una soluzione. Nonostante i recenti cambiamenti nella sua vita, si sforza di rimanere concentrato. Può trascurare la sua famiglia, ma non il lavoro.
Proprio come in quella casa. La donna delle pulizie passa ogni settimana a sistemarla, ma lui non se ne rende più conto. A volte rientra soltanto per dormire. Raramente usa la cucina. Nell’ultimo ripiano della libreria ci sono i libri di musica, ormai vecchi e polverosi. In basso la collezione dei mensili di viaggi, a cui la sua ex-moglie era abbonata: ogni mese una meta turistica che non avrebbero mai visitato, ogni mese un litigio.
Claudio si versa un altro bicchiere di grappa. Si massaggia le tempie, riflettendo. La morte del Bianchini è stata chiusa rapidamente. Il vigilante ha ammesso le sue colpe ed è in attesa di essere giudicato in tribunale per omicidio. Ma Claudio non ha mai potuto parlare con l’uomo fuggito dalla rissa, nè verificare altre responsabilità.
I medici legali hanno confermato il suicidio del Rossi, a causa dell’ingestione di una dose massiccia di barbiturici. Ma anche quelle circostanze non convincono Claudio, poichè le motivazioni non gli sembrano sufficienti per escludere un omicidio ben congegnato.
I suoi colleghi lo prendono in giro per quei pensieri. Credono che Claudio si rifiuti di accettare la chiusura dei casi per rimandare la sua pensione. Malui è convinto che ci sia qualcos’altro sotto. Qualcosa che gli sfugge, qualcosa che gli impedisce di abbandonare il suo lavoro e i tanti sacrifici del passato, permettendogli di occuparsi esclusivamente della sua famiglia e della sua vita privata.
Forse è Angelo che ha organizzato un complotto per salire alla ribalta della stampa e rubargli il posto. Forse ha organizzato la morte del banchiere in modo da risolvere il crimine da lui stesso commesso. E forse anche il capo è in combutta con lui, per guadagnare più potere e privilegi politici. Il suo allontanamento anticipato è una prova di quel complotto: perchè mandarlo via a un mese dalla pensione? Forse il pugno ad Angelo era soltanto una scusa. Forse è stato cacciato perchè si stava avvicinando pericolosamente alla verità.
Claudio si versa l’ennesimo bicchiere di grappa. Il mal di testa sta aumentando, ma continua a riflettere. Soprattutto sui sogni di Giuseppe, e sul crimine senza movente. Forse è questo il caso della rissa notturna. Forse è un crimine perfetto, organizzato da un genio del male, senza alcun movente, che ha fatto ricadere la colpa su un altro.
Claudio fa per versarsi un ultimo bicchiere di grappa, ma la bottiglia è vuota. Nonostante la stanchezza e il mal di testa, non ha intenzione di smettere di riflettere. Nonostante le richieste della sua famiglia e le accuse dei suoi colleghi, non ha intenzione di abbandonare quei casi.
Prima della pensione, prima del riposo, prima del resto della sua vita, Claudio vuole raggiungere la verità.

 

La pioggia si è trasformata in nevischio. Fiocchi di neve gelida e sporca, che non attacca. Le strade sono umide e imbrattate di fango.
Claudio ha i capelli bagnati; si toglie il cappotto e lo mette al tavolo. Giuseppe è già al bancone a scherzare con la barista.
“C’è questo film al cinema. Si chiama Seven. Dai che ci divertiamo.”
“Falla finita. Poi Giorgia si incazza.” dice Nadia, senza neppure guardarlo.
“Ma mica stiamo assieme.”
“E vorrei anche vedere. Se continui così, non starai mai con nessuno.”
Giuseppe si mette a ridacchiare. Poi prende un caffè e lo porta al tavolo. Claudio mette nel suo due zollette di zucchero.
“Allora? Come va con il tuo tempo libero?”
Claudio scrolla le spalle.
“Qualche viaggio? Hobby?”
“Niente.”
“Fammi indovinare. Donne?”
“Nemmeno.”
“E che fai?”
“Niente. Te l’ho detto.”
Giuseppe aggrotta le sopracciglia. Finisce il suo caffè e chiede a Nadia un bicchiere di amaro.
“Tu come stai?” gli chiede Claudio.
“Bene. In ufficio è tutto tranquillo.”
“Chi hanno promosso?”
“Nessuno. È arrivato un ispettore da Grosseto alla tua scrivania. Un tale Gasparri.”
“Ettore?”
“No, Andrea.”
“Allora non lo conosco.”
“Vabbè. È giovane, ma non mi sembra molto simpatico. È sempre attaccato al fazzoletto e starnutisce in continuazione. Secondo me ha dei problemi.”
“Ma è bravo?”
“Boh. Vedremo.”
Claudio cerca il pacchetto di sigarette. Fuori ha smesso di nevicare, ma il cielo è ancora coperto.
“E con Giorgia?”
“Adesso è di pattuglia con Luca.”
“No, intendo… tra voi due?”
“Nulla di serio.”
Gli occhi dell’amico si fanno distanti, nervosi. Claudio preferisce lasciar cadere l’argomento. Non sarebbe stato comunque in grado di aiutarlo, dal momento che non è in grado di aiutare neppure sè stesso.
“Su quali casi state lavorando?”
“Sono informazioni riservate.”
“Dai. Magari posso dare una mano.”
Giuseppe scuote la testa.
“Non fare cazzate, Claudio. Lo sai che il capo non ti vuole più vedere. Goditi la pensione.”
“Solo per curiosità. Non ho intenzione di indagare.”
“Vorrei ben vedere.”
Giuseppe si beve l’amaro in un sorso. Quindi si gira il bicchiere tra le mani, tenendo lo sguardo basso.
“Stiamo indagando sull’assessore Colaianni.”
“Quello dei lavori pubblici?”
“Sì. Pare che si sia intascato delle tangenti per pilotare gli appalti. Brutta storia.”
“Brutta storia davvero. Tangentopoli non ha insegnato nulla.”
“Che ti posso dire? Stiamo indagando. Forse è solo una mossa degli avversari politici, per farlo dimettere.”
“E poi?”
“Furtarelli. Una villa svaligiata allo Stellino.”
“Novità sul banchiere suicida?”
“Quello è un caso chiuso, Claudio. Mettiti l’anima in pace. Adesso stiamo seguendo altri casi. Altre piste.”
“Qualcosa di grosso che bolle in pentola?”
“Sì. Una banda di albanesi. Spaccio di droga, furti, omicidi. Gente pericolosa. Secondo me hanno anche degli agganci politici, da qualche parte. Sembrano dei professionisti.”
“Avete preso qualcuno?”
“Solo dei pesci piccoli. Ci stiamo lavorando.”
“Posso leggere i verbali?”
Giuseppe gli lancia un’occhiataccia. Claudio annuisce. Si dimentica in continuazione di essere in pensionamento anticipato. Non ha più accesso ai verbali, agli interrogatori, agli indizi. Non sa niente delle indagini della polizia, non può seguire piste e non può collegare i casi. Ma non ha intenzione di arrendersi. Prima della pensione, vuole raggiungere la verità.
“Angelo come si sta comportando?”
“Bene. Perchè?”
“Sta seguendo questa operazione?”
“Certo. L’ha chiamata Santa Claus. Pensa di riuscire a chiuderla per Natale.”
“Molto ottimista. In Valdelsa ci abbiamo messo quasi due anni.”
“Lui è fatto così. Lo sai.”
“Verrà sul campo?”
“No. Andrò io. Assieme a Luca e a Giorgia.”
“Se hai bisogno di una mano, io ci sono.”
“Non fare cazzate, Claudio.”
Giuseppe gli stringe il braccio con forza e sorride.
“Goditi la pensione. Te lo dico da amico:”
Claudio annuisce, senza convinzione.
Giuseppe si alza e indossa l’impermeabile.
“Ci vediamo presto. Stasera no, perché devo andare al cinema con Nadia.”
“Hai dato il mio nome alla tua mano destra?” gli risponde la barista, infastidita.
“Dai, Nadia. Non fare la difficile.”
“E tu non fare l’idiota.”
“Guarda che domani sera me la vedrò brutta! Potrebbero anche ammazzarmi!”
“Allora saldami il conto.”

Claudio ha portato una pistola d’ordinanza per quasi quarant’anni, ma l’ha usata soltanto in due occasioni. Ed entrambe le volte ha mancato il bersaglio. Quello di ispettore non è un lavoro fatto di sparatorie, azione ed esplosioni. Quelli sono gli show americani che si vedono alla televisione.
La pistola è solo un deterrente. Quello di ispettore è un lavoro fatto di relazioni sociali, per la raccolta di informazioni, e di ragionamenti, per collegare gli indizi e le ipotesi. E adesso che Claudio non può accedere agli indizi raccolti, può utilizzare soltanto le relazioni sociali. Proprio ciò che gli riesce peggio.
Il suo informatore è un piccolo spacciatore dello Stellino, che vagabonda nel quartiere popolare a nord di Siena. Un pesce piccolo, insomma. Si è fatto un anno di carcere a San Gimignano per spaccio, poi si è ripulito coi servizi sociali. La polizia gli ha concesso di far girare un po’ di roba, quel tanto che basta per tenerlo in contatto con i pesci più grossi e pagargli le informazioni.
Claudio ferma la macchina ai parcheggi di fronte alla pasticceria. In fondo c’è un gruppo di ragazzini che fumano le canne e ascoltano musica elettronica da un grosso stereo. Uno di loro, col cappellino girato e la catenella al collo, gli mostra il dito medio tra le risate dei compagni.
Claudio li lascia stare. Si incontra con l’informatore dalla parte opposta dei parcheggi, dietro una fila di camper degli zingari. Le auto sfrecciano tra il fango e il nevischio, in direzione di Firenze.
“Clà. Ma non eri in pensione?” gli dice Giacca, porgendogli la mano.
“Manca poco.”
Giacomo Paglieri, detto Giacca, è un ragazzone alto e smunto. Porta un passamontagna marrone e dei jeans strappati. Ha profonde occhiaie nere in un volto pallido, su cui svetta un naso aquilino.
“Mi offri una sigaretta, Clà?”
Claudio tira fuori il pacchetto. Giacca afferra la sigaretta con mano tremante. Ha le labbra secche e screpolate.
“Che sai degli albanesi?” gli chiede, andando dritto al punto.
“Che devo sapere, Clà? Hanno preso tutto il giro, qui. Altro che quei bischeri della Valdelsa. Questa è gente seria. Con gli agganci. Mica dei ragazzini.”
“Che hanno fatto?”
“Hanno ammazzato un carabiniere, mica scherzi. Giù a Rapolano. Non hai letto i giornali?”
“Sì. Ma non dicevano nulla degli albanesi.”
“Eh, ma quelli son giornalai. Mica lo possono scrivere, Clà. Lo sai bene anche te, no?”
“Sì. Comunque, che altro sai?”
“Son gente seria, questi qua. Hanno preso tutto il giro di droga fino a Perugia.”
“E quelli che erano con te? I casertani?”
“Ne hanno ammazzati un paio. In zona Due Ponti.”
Claudio viene colpito da un’improvvisa rivelazione. La possibilità di una pista, di un collegamento tra i casi. Il momento che aspettava da giorni, nella sua ricerca della verità.
“Il Bianchini?”
“Chi?”
“Quello ammazzato al bar, qualche settimana fa. Era uno dei casertani?”
“No. Mai sentito. Che c’entra adesso?”
“Niente. Lascia stare. Era solo un’idea.”
“Si vede che sei in pensione, Clà. Non ci chiappi più niente!”
“Vabbè. Continua pure.”
Giacca aspira una lunga boccata dalla sigaretta, poi tossisce rumorosamente. Dai camper degli zingari si alzano alcune grida. Giacca riprende a parlare:
“I casertani non hanno mica tanti agganci, eh. Ormai non controllano più un cazzo. Hanno provato a far saltare qualche testa degli albanesi, ma non c’è stato niente da fare. Un paio sono morti, gli altri si sono alleati. È sempre così, in questo schifo di gioco.”
“Il pesce grosso mangia quelli piccoli?”
“Ne mangia qualcuno. Gli altri pesci piccoli vanno a ingrossare le fila di quelli grossi. È sempre così, no? Il vincitore si prende tutto.”
Claudio annuisce. Giacca fa dei cenni ai ragazzini in fondo ai parcheggi, che mostrano il dito medio anche a lui.
“Comunque sia. – continua Claudio – La questura ha in mente un’operazione. Domani sera. Sai dove?”
“Se non lo sai tu, Clà. Sei tu il poliziotto, qui!”
“Voglio sapere se i casertani lo sanno. Se gli albanesi lo sanno.”
Giacca butta via la sigaretta. Le sue mani sono secche e tremanti. Tossisce malamente.
“Bè?”
“Non lo so, Clà. Non so che dirti. Penso a san Miniato, sopra il supermercato. Gli albanesi lo usano come magazzino, so che hanno organizzato un ritrovo. Ma non so quando. Non so se è domani sera o un altro cazzo di giorno. Che ti posso dire?”
“Forse ci sarà un incontro con i fornitori. La questura li vuole prendere con le mani nel sacco.”
“Ne dubito. Penso che ci sia un talpa.”
“Dove?”
“In questura. Te l’ho detto, Clà. Questi sono professionisti. Si muovono bene. Non sono dei tossici del cazzo che si improvvisano mafiosi, magari perchè si sono guardati i film del Padrino mentre erano strafatti. Questa è brutta gente. Ci sa fare.”
“E la talpa?”
“Che ne so, Clà. Ci sei tu in questura.”
Claudio annuisce. Paga Giacca e lo saluta, tornando verso la macchina. I ragazzi in fondo ai parcheggi gli lanciano degli insulti, ma lui non ci fa caso. Ha già i suoi sospetti sulla talpa della questura, che lo tengono impegnato per tutto il viaggio di ritorno verso casa.

 

Marta si presenta all’appuntamento con gli occhiali da sole, anche se è novembre inoltrato. Ha i capeli biondi perfettamente curati, si è appena fatta la permanente. Fuma nervosamente una sigaretta dietro all’altra.
Claudio la saluta con la mano, avvicinandosi. Una comitiva di turisti giapponesi appena usciti da Piazza del Campo si mette loro in mezzo, prima di proseguire verso l’autostazione. Marta si avvicina a sua volta, tenendo al sigaretta in mezzo ai denti e rovistando con entrambe le mani nella borsetta.
“Ma dov’è finita? Era qui…”
Claudio si passa una mano attorno alla barba incolta, guardandosi attorno. Non vede nessun volto noto. Solo una marea di turisti attorno alla piazza di Siena, come in ogni periodo dell’anno.
“Perbacco!” dice lei.
Claudio sorrideva sempre alle sue imprecazioni. La sua ex moglie non aveva mai bestemmiato, neppure una volta. Ogni volta che doveva imprecare riusciva sempre a mantenere il controllo, con il risultato di sembrare ancora una bambina. E con il rischio di non essere presa sul serio, quando si incazzava veramente.
In quello, Marta non era mai cambiata. Fin dai tempi in cui lavorava in quel negozio di dischi, appena ventenne, durante il loro fidanzamento. Anche se lei era un’appassionata dei Beatles, Claudio l’aveva conquistata suonando musica classica con il suo violino.
“Martini. Marta Martini. È uno scherzo?” diceva sempre, ridendo, quando il matrimonio cominciava a diventare una possibilità concreta.
“Marta Martini. Ma dai! Non posso mica usare il tuo cognome.” scherzava.
E infatti avevano divorziato, poco dopo aver festeggiato i nove anni di matrimonio. Non per via del cognome, per carità. Neppure per le bestemmie mancate.
Marta tira fuori un foglio di carta dalla borsetta ed esibisce un sorriso smagliante.
“Eccola. Facciamo come al solito, no?”
Claudio la prende in mano, senza dire nulla. Un’altra multa alla Cinquecento, in periferia di Siena.
“Ha fatto le ore piccole, immagino. Anzi, non è proprio tornato a dormire. Gli hanno fatto la multa appena sono scattate le otto, quando i parcheggi sono diventati a pagamento.”
“Sono ragazzi, sai. Una domenica notte di festa.”
“Sarà la decima volta, quest’anno.”
“Non sei mica suo padre.” dice lei, stizzita.
Claudio avrebbe voluto ribattere che neppure lei era sua madre. La sua vera madre. Ma ogni volta che accennava quel discorso, Marta andava su tutte le furie. Giulio era il figlio maschio che non aveva mai avuto, a cui si poteva perdonare tutto. Peccato che fosse un coglione.
“Dai, Claudio, non fare storie. Tanto hai quell’amico nella polizia municipale, no?”
“Sì. Ma sto per esaurire i favori da riscuotere.”
“Che vuoi che sia, annullare una multa? Non è mica per i soldi, sai. È per la fedina, è meglio che non ci siano troppe multe. E quella faccenda dei concorsi pubblici… se riuscissimo a farlo entrare in comune, quello sì che sarebbe un bel colpo. Sistemato a vita.”
“Serviranno amicizie migliori, per quello.”
“Si tratta di un favore a Giulio, per il suo futuro. Me lo devi. Sai che non ti ho mai chiesto soldi per Chiara.”
Certo che no. Aveva già sei anni, quando si erano separati. E Giuliano era arrivato meno di un anno dopo, con il suo stipendio da direttore di banca e i baffetti alla Mastroianni. Si era portato anche Giulio dal precedente matrimonio, oltre ai soldi. Una combinazione irresistibile per Marta, insomma.
Claudio si mette la multa in tasca, poi cerca il pacchetto di sigarette. Le nubi si stanno addensando già da un po’ di tempo sopra i tetti, minacciando pioggia.
“Ci penso io… – dice – Ma che sia l’ultima volta. Digli di mettere la testa a posto.”
Marta stritola il mozzicone e lo getta a terra. I suoi occhi sembrano diventare di fuoco, sotto gli occhiali da sole.
“Ha la testa a posto. Lo sai bene. Non frequenta più quel giro.”
“Se lo dici tu.”
“Io curo i miei figli. Sono sempre presente. Io.”
“Non intendevo questo, Marta. In città è arrivata una banda di albanesi, con quei casini che stanno succedendo laggiù. Stanno mettendo le mani sul traffico di droga, sia leggera che pesante. Non sono tipi da sottovalutare.”
“Giulio non frequenta più quegli sbandati.”
“Ovvio. Ne ho già sbattuti in cella un paio.”
Marta si porta le mani ai fianchi e drizza la testa. Sembra una vipera pronta a colpire.
“Abbiamo già affrontato questo discorso. Si è fatto trascinare solo una volta. Una!”
“Vabbè. Comunque, digli di fare attenzione. Con quella gente non si scherza.”
“Vedi di fare attenzione anche tu, allora. Se ci sono questi criminali in giro per la città, sarà il caso che voi facciate meglio il vostro lavoro. Non credi?”
Claudio non le risponde neppure. Si accende una sigaretta, mentre l’ex moglie si allontana tra le vetrine dei negozi di abbigliamento. Una nuova comitiva di turisti affolla Piazza del Campo, incurante del temporale in arrivo.

Capitolo 8
Una retata notturna della polizia finisce nel peggiore dei modi.

È notte fonda nel quartiere di San Miniato. Un quartiere dove non è prudente girare da soli neppure di giorno, stando agli ultimi racconti di Giacca. Palazzoni grigi e fatiscenti, cantieri abbandonati e magazzini occupati dalla malavita. C’è anche un vecchio Luna Park dismesso, con i cartelloni arrugginiti e le luci intermittenti.
Claudio è fermo da oltre due ore in un piccolo parcheggio, poco fuori dalla strada principale. Conosce bene le tecniche di appostamento della questura e i metodi utilizzati dal suo vecchio capo. In fondo all’incrocio nota una volante dei carabinieri in incognito, anch’essa appostata a copertura dell’operazione,
È una notte fredda e senza stelle. Claudio si è portato un plaid e una scatola di biscotti integrali. Fuma poco, per non dare nell’occhio. La radio è una bassa musica che diffonde gli ultimi dischi dei Queen e di Guccini.
Il primo ad avvicinarsi è un tossico che gli offre una dose di eroina. Claudio rifiuta con tono deciso. Il ragazzino è una maschera pallida dagli occhi vitrei, stretto dentro una felpa enorme e un cappellino di lana. A Claudio sembra di averlo già visto nella sala d’aspetto della cartomante, qualche giorno prima. Ma è buio, e i lampioni della strada sono rotti. Non lo segue per non vanificare il suo appostamento. Il suo sospetto è sufficiente per confermare un collegamento tra i casi a cui stava lavorando prima di essere cacciato. E la accuse di Giacca sulla talpa in questura non fanno che aumentare i suoi timori di un complotto.
Dopo pochi minuti è il turno di una prostituta, che gli bussa al finestrino con le nocche. Claudio la manda via con un gesto della mano. La donna è ancora più magra e pallida del tossico, avvolta in un pellicciotto di dubbia origine. Si allontana claudicante sui tacchi rossi, alla ricerca di altri clienti.
I colpi di pistola distruggono la quiete notturna. Una serie di spari, provenienti dal complesso in cui si trova il supermercato e il magazzino dei casertani. Poi una raffica di mitra, delle urla, una violenta esplosione e il frastuono dei vetri rotti.
Claudio si allarma. Non ha una pistola, nè altre armi. Soltanto un distintivo usurato e un tesserino in scadenza. Le urla da San Miniato si fanno più forti. Si sentono altri due colpi di pistola, ancora più vicini. Parte l’allarme di un’automobile, seguito dalle sirene della polizia.
La volante dei carabinieri all’incrocio accende le luci. Si sente il rombo dei motori delle macchine in avvicinamento. Claudio accende il motore della sua vecchia Audi.
Due automobili nere appaiono dalla curva e sfrecciano verso l’incrocio, inseguite dalle sirene della polizia. Claudio distingue due Opel station wagon, con gli abbaglianti alti, che procedono in maniera spericolata lungo la strada.
La volante dei carabinieri avanza per chiudere loro il passaggio, ma la prima Opel le si schianta addosso a tutta velocità. La volante schizza via come un trottola impazzita, tra pezzi di lamiera e vetri esplosi; si ribalta contro il muretto in fondo all’incrocio e si rovescia su un fianco. L’Opel viene sbalzata via dalla parte opposta e finisce nel fossato, dopo un testacoda.
La seconda Opel sfreccia via senza neppure rallentare, approfittando dell’incrocio libero. Claudio ha solo pochi attimi per riflettere, ancora sconvolto dall’incidente a cui ha assistito. Ingrana la marcia e si mette all’inseguimento dell’auto dei malviventi. Supera l’incrocio con una sgommata e prosegue verso Vico Alto.
Non sa perchè li insegue. Non sa con certezza chi siano, nè cosa sia successo a San Miniato. Non saprebbe neppure cosa fare, se li raggiungesse o li fermasse.
Quello che sa è che uno degli uomini dentro all’Opel apre il finestrino e si sporge fuori, guardando verso di lui. È una figura scura, avvolta in un passamontagna, indistinguibile nonostante i fari puntati addosso. Le auto proseguono a tutta velocità lungo il sottopassaggio e imboccano Vico Alto. L’uomo estrae una pistola e esplode due colpi verso di lui.
Uno dei proiettili si schianta contro il paraurti. Claudio si ferma immediatamente, spaventato. Si accosta in un angolo della strada, mentre l’Opel scompare dietro una curva. Claudio cerca di recuperare il fiato, col cuore che gli batte all’impazzata.
Due volanti dei carabinieri gli sfrecciano accanto a sirene spiegate, all’inseguimento dei malviventi. Subito dopo passano tre auto della polizia.
Claudio si porta la testa tra le mani. Respira profondamente, cercando di mettere ordine nella sua mente. Questa è la realtà, non è uno stupido telefilm americano. Sente le sirene delle ambulanze in direzione di San Miniato. Altri colpi di sparo da Vico Alto.
Claudio attende ancora qualche minuto, poi rimette in moto la vecchia Audi verso casa. Gli eventi di quella notte riguardano la questura di Siena, e lui non ne fa più parte.

 

 

La stanza degli interrogatori della questura di Siena è fredda e poco accogliente. Un tavolo di metallo occupa quasi tutta la stanza, con sopra un paio di bottiglie d’acqua e una pila di documenti. Dalle finestre in alto si intravedono i fiocchi di neve che hanno ricominciato a cadere sulla città.
Claudio è entrato centinaia di volte in quella stanza, nel corso della sua carriera. Ma questa è la prima volta che siede dall’altra parte del tavolo. Si sente a disagio. Batte nervosamente il piede a terra, con le braccia incrociate sul petto.
“È solo una chiacchierata informale. Ci devi delle spiegazioni.” dice Giuseppe.
L’amico è scuro in volto. Non tradisce sorrisi, nè gesti cordiali. Angelo, dal canto suo, ha il solito sorrisetto ironico su una faccia perfettamente curata; si aggiusta il colletto della camicia e non perde l’occasione per punzecchiare Claudio.
“Non riesci proprio a goderti la pensione, eh? In tanti vorrebbero essere al tuo posto, ma tu proprio non ci riesci. Non riesci a stare al tuo posto.”
Claudio è irritato dallo sguardo di Angelo e da quella situazione. Sicuramente dietro al vetro c’è anche Romeo, che impreca furiosamente e manda tutti a quel paese.
“Che ci facevi a San Miniato?” gli chiede Giuseppe.
Claudio sospira. Non sospettava che quella prostituta fosse un’informatrice dei carabinieri. E adesso si sente inadatto a gestire la situazione, anche se non è un interrogatorio ufficiale. Vorrebbe esporre tutti i suoi sospetti, ma non si fida di Angelo. Teme che tutti gli ultimi casi siano collegati, teme di essere vittima di un complotto ben congegnato. Forse non è stata quella prostituta a informare la questura della sua presenza nel luogo dell’operazione. Forse è stato il criminale dentro all’Opel a informare la sua talpa nella questura. Forse è tutto un complotto, e lui deve soppesare con attenzione ogni sua parola.
“Allora? Claudio?”
“Volevo controllare la situazione. Darvi una mano, se necessario.”
“Controllare che cosa?”
“L’operazione contro gli albanesi.”
“Come facevi a conoscerla?” lo incalza Angelo.
Claudio prende tempo, versandosi da bere. Il tremolio della mano tradisce il suo nervosismo. Non vuole coinvolgere Giuseppe, ma non vuo vuole neppure far ricadere i sospetti su sè stesso. Se anche la questura sospettava di una talpa, poteva ritrovarsi in guai ancora più grossi.
“Giacca.”
“Quel tossico?”
“Sì. Mi ha detto dell’operazione in corso.”
“Neppure lui sapeva quando ci sarebbe stata. Il posto, forse. Ma non il giorno.”
Claudio sorride. Giuseppe si era lasciato sfuggire la data dell’operazione mentre parlava con Nadia, e lui aveva messo assieme le informazioni a quelle di Giacca.
“Lo so. – dice – Infatti volevo appostarmi tutte le sere. Non ho molto da fare, in questi giorni. Ho riconosciuto i carabinieri all’incrocio e sono rimasto.”
“Che cosa ti credevi di fare?” gli chiede Giuseppe, rabbiosamente.
“Aiutarvi. In caso di necessità.”
Giuseppe guarda Angelo, che gli fa un cenno d’assenso. È lui a prendere la parola, con tono più pacato.
“Ascoltami, Claudio. L’operazione è stata un fallimento. Gli albanesi ci stavano aspettando. Era una trappola.”
“Una trappola?”
“Sì. Abbiamo perso due carabinieri e un poliziotto. Un altro ispettore è rimasto ferito, è ancora in ospedale.”
“E gli albanesi?”
“Scappati. Il magazzino era pulito. Una trappola, capisci?”
“Ma… e l’incidente?”
“Loro due sono gli unici che abbiamo preso. Quei pazzi che si sono schiantati contro la volante. Uno è morto sul colpo. L’altro lo torchieremo per bene. Ci dirà chi è la talpa.”
“La talpa?”
“Sì, certo. Mi pare ovvio. Una talpa in questura, no? È evidente. Questa è una banda di professionisti.”
Claudio si gratta il mento, pensieroso. Angelo lo fissa con una strana smorfia in faccia: come al solito, non capisce se sia una smorfia cordiale od ostile.
“Giacca?” chiede, dopo qualche secondo.
“No. Lui è fidato. E ne sa meno di te.” risponde Giuseppe.
“E allora chi?”
“Lo scopriremo.”
“Tu, piuttosto. – continua Angelo, mantenendo un tono calmo – Che ci facevi lì?”
“Ve l’ho detto.”
“Potresti essere tu la talpa.”
“No! Ero lì per aiutarvi!”
“Perchè non avevi nulla da fare? Perchè sei troppo attaccato al tuo lavoro?”
“Sì!”
Angelo sorride maliziosamente. Si sporge sul tavolo, avvicinando il volto a quello di Claudio. Quindi riprende a parlare, con tono sempre più pacato.
“Quindi, se ho ben capito… ammetti ciò che ti stavamo ripetendo da mesi. Non riesci ad accettare il pensionamento, non riesci a goderti la tua vita privata. Cerchi di tornare al lavoro perchè non hai nient’altro da fare. Non sei la talpa. Sei solamente un fallito.”
Claudio non risponde. In parte è vero. Ma ci sarebbe anche la questione del complotto e dei casi irrisolti, che non può dire di fronte ad Angelo.
“È così? La tua vita è così triste?”
“Sì.” ammette Claudio, a malincuore.
Angelo sfodera un sorriso irritante. Claudio vorrebbe prenderlo nuovamente a pugni, ma riesce a trattenersi. Stavolta non se la sarebbe cavata con un pensionamento anticipato. Giuseppe interviene a calmare la situazione:
“Basta, dai. Non è lui la talpa.”
“Lo scopriremo quando l’albanese parlerà. Se farà il tuo nome, saremo costretti ad arrestarti.”
Claudio continua a tacere. Cerca di riflettere sugli ultimi eventi, senza lasciarsi condizionare dalle emozioni del momento. Beve un altro sorso d’acqua, poi chiede:
“E il collega ferito? Chi è?”
“Il Gasparri. Il nuovo arrivato, quello di Grosseto.”
“Un pessimo inizio.”
“Già. – dice Giuseppe – Uno squarcio sul ventre. Dovresti vedere che roba!”
“Ma no. – lo corregge Angelo – Quella è una ferita precedente. Non hai visto la cicatrice? Il proiettile l’ha colpito alla spalla.”
“Niente di grave, spero.”
“No. Dovrebbe tornare dopo Natale.”
Claudio è colpito da un’improvvisa rivelazione. Una speranza, forse azzardata. Ma vale la pena tentare.
“Potrei… tornare ad aiutarvi, mentre lui non c’è. Soltanto per queste due settimane. Appena il Gasparri torna, me ne vado in pensione.”
Giuseppe lo fissa per qualche secondo, pensieroso. Poi annuisce, seppur con scarsa convinzione.
“Potresti farci comodo. Con questa storia degli albanesi…”
Angelo si oppone con fermezza.
“No. La tua posizione non è ancora chiara. Vedi di stare alla larga dalle indagini.”
“Ma…”
“Non hai ascoltato i nostri consigli da amici. Abbiamo chiuso un occhio. Ma adesso basta. Non possiamo più pararti il culo. Se ti troverò nuovamente a intralciare le indagini, ti sbatterò personalmente in galera.”
Claudio fa per replicare, ma non sa cosa dire. Neppure Giuseppe osa ribattere. Esce dalla stanza assieme ai colleghi, sfuggendo gli sguardi altrui. Dietro al vetro, ne è convinto, il capo sta imprecando contro di lui.

Capitolo 9
L’Ispettore Martini abbandona le indagini e affronta il suo futuro.

Siena è una città che ricorda. Le mura sono intrise di memoria, dalle più antiche alle più recenti. Ogni via è un monumento, ogni contrada è un luogo della memoria. Il passato è vivo, pulsante.
Siena definisce continuamente la sua identità culturale sul passato. Ogni anno. Attraverso il Palio, le feste, le celebrazioni dei ricordi comuni. Siena non dimentica: costruisce il futuro sui mattoni del passato.
È il presente a essere nebuloso, confuso, incerto e distorto. Claudio lo sa bene. Anche lì, dall’alto della Fortezza Medicea, la nebbia avvolge le torri e le chiese della città. Una nebbia fitta e umida, che sale lungo i palazzi e gli alberi rinsecchiti.
Claudio si sente come la sua città. Il suo passato è la sua forza, il suo presente è avvolto dalla nebbia. Cumuli di neve secca e ghiacciata sono ammucchiati agli angoli delle strade. Il sole è un pallido alone tra le cime degli alberi.
Claudio passeggia lungo le strade della fortezza, senza una meta. Le donne che fanno jogging con i walkmen alla cintura non lo degnano di uno sguardo. I ragazzini che fumano sulle panchine, invece, gli lanciano delle occhiatacce ostili.
Claudio non ha niente da fare. Dalla questura non è arrivata neppure la convocazione per un interrogatorio ufficiale, men che meno la richiesta d’aiuto per le indagini. Dovrebbe comprare un regalo alla madre per il compleanno, ma non ha voglia di entrare in un centro commerciale. Dovrebbe anche cercare dei regali di Natale per la ex-moglie, per la figlia, per il nipotino in arrivo… dovrebbe fare tante cose per la sua famiglia, ma non è mai stato molto bravo a farle.
Il giornale locale è pieno di cronaca nera. Claudio lo legge in disparte, seduto sopra una panchina. Lo scontro tra bande di trafficanti ha infiammato San Miniato e Vico Alto, e non accenna a diminuire. La polizia ha effettuato degli arresti e delle perlustrazioni a tappeto tra i sospettati, ma ancora non ha raggiunto i capi degli albanesi.
Claudio legge con interesse i reportage dei cronisti, poichè sono le uniche informazioni che riesce ad avere. Le stesse informazioni degli altri cittadini senesi: tossici ammazzati, ladruncoli arrestati, carabinieri feriti. E poi accuse di corruzione tra i poliziotti locali, tangenti, nuove droghe sintetiche dal sudamerica e ondate di prostituzione dall’est europa. Quelle sono le informazioni date alla stampa: la realtà sulle indagini in corso le conoscono solamente il suo ex-capo e i suoi ex-colleghi di lavoro.
Claudio lascia il giornale sulla panchina e si avvicina ai parapetti della fortezza. La nebbia si sta diradando, i tetti spuntano tra il gelo e la foschia. Lungo le vie principali brillano le luminarie e le decorazioni natalizie.

Claudio non si è mai trovato a proprio agio in mezzo alla folla. Sia perchè va sempre in giro da solo, sia perchè la confusione gli impedisce di ragionare e di fare attenzione ai dettagli. E la concentrazione è una dote fondamentale per un ispettore, in fin dei conti.
Claudio cammina lungo la galleria del centro commerciale, tenendo le mani nelle tasche del cappotto. Le persone gli passano accanto, una dopo l’altra. Camminano tutti più veloci di lui. Corrono, ridono, parlano. Il vociare della folla è frenetico, penetrante. Sale come un rombo, avvolge i sensi, annebbia il pensiero. Sembra che la folla sia una bestia, e il vociare sia il suo ruggito, capace di stordire la preda. Ed è proprio Claudio la preda: l’uomo che prensa di potersi ergere fuori dalla folla, di diventare qualcos’altro, di liberarsi dal branco. La folla lo circonda, lo divora.
Claudio passeggia tra le vetrine, con la mente intorpidita. C’è un negozio di articoli musicali, ma passa oltre senza fermarsi. Ormai si è quasi dimenticato come suonare il violino. Ormai non prende uno spartito in mano da anni. Neppure i nuovi telefoni portatili nella vetrina del centro di elettronica attirano il suo interesse: ha già il cellulare di lavoro, e non ha così tanti amici da chiamare.
Qualcuno lo urta. Anzi, forse è lui a urtare qualcuno. Una ragazza lo guarda male, aggiustandosi la borsa sulla spalla. Claudio si scusa con un grugnito indecifrabile. Attorno a lui, le vetrine cominciano già a esibire i primi articoli natalizi, coi loro fiocchi colorati e le canzoncine allegre.
Claudio entra nel negozio di fiori. Un vaso di orchidee è quello che ci vuole per il compleanno della madre. Forse è un pessimo regalo: se lo ripete in continuazione, mentre paga la commessa con la carta di credito. Forse è un regalo adatto ai ricoverati in ospedale, ai matrimoni, ai funerali o ai festeggiamenti dei parenti più lontani. Ma un regalo alla madre?
Anche l’anno prima le aveva regalato dei fiori. Anche due anni prima, probabilmente. Non se lo ricordava. Poi c’era stato quel profumo che le pizzicava il naso, e che non aveva mai usato. Ogni tanto Claudio lo vedeva in bagno, quando andava da lei: una boccetta viola in seconda fila, sopra il mobiletto dei detersivi, dietro ad altre boccette lasciate a prendere la polvere.
Si era impegnato a fare dei regali decenti, quand’era più giovane. Dei regali utili, apprezzati, ricercati, che non si fermassero al solo pensiero. Ma sua madre sembrava eternamente insoddisfatta.
“Grazie.” gli diceva. E non era un grazie che veniva dal cuore. Era un grazie di circostanza, un grazie di rispetto e dovere.
“Belli i fiori.” diceva. Ma non ne parlava più. E Claudio non sapeva che fine facessero. Forse li metteva in balcone con gli altri, o forse li buttava e si teneva il vaso per altri scopi.
Si era seriamente impegnato a fare dei regali veri, ma ci aveva rinunciato già da qualche anno. Qualunque cosa facesse, sua madre è sempre insoddisfatta. E lui non sembra mai all’altezza delle aspettative, sempre un po’ più indietro rispetto ai sacrifici fatti dal padre. Nessun regalo avrebbe potuto riportarlo indietro dalla tomba, cazzo! Se lo dice sempre, Claudio, mentre compra i fiori. E stringe i pugni con forza: se non può dimostrarlo a sua madre, perlomeno vuole dimostrarlo a se stesso. Non c’è bisogno di fare regali all’altezza del suo sacrificio.
Gli obblighi sociali impongono dei regali, per i compleanni e per le festività natalizie. Basta il pensiero. Lo dicono tutti, basta il pensiero. Perchè non lo dice anche sua madre? Perchè non l’ha mai detto, invece di far buon viso a cattivo gioco? Anche quell’anno avrebbe dovuto accontentarsi di un vaso di fiori. E di un profumo per Natale, forse. Un’altra boccetta destinata a prendere la polvere sopra il mobile del bagno.

 

Ti accorgi del tempo che passa soltanto quando ti fermi. Se vai troppo di fretta, la vita ti passa attraverso e non te ne accorgi. La stanchezza ti piomba addosso tutta assieme, all’improvviso, quando ormai è troppo tardi per rimediare.
Questo è ciò che Claudio si sente dire dalla madre, sin dall’infanzia. Questi tristi pensieri sulla vita che scorre veloce, sulla frenesia degli impegni della vita moderna, che impediscono alle persone di raggiungere la pace e la serenità, oltre a godersi pienamente il tempo che ci è concesso con i nostri cari.
Claudio l’ha sentito dire centinaia di volte da sua madre. Pensieri comprensibili, da parte di una moglie che ha perso il marito in guerra. Suo padre non ha potuto godersi il tempo della maturità e della vecchiaia, e alla madre non rimane che il ricordo dei pochi momenti felici passati assieme.
Eppure, Claudio non ha mai tratto insegnamento da quelle parole. Lo ammette umilmente, ogni volta che incontra lo sguardo della madre. Si è accorto del peso dei suoi anni soltanto dopo il pensionamento anticipato. Si è reso conto di non aver abbastanza ricordi felici con la sua famiglia. E adesso sua figlia è incinta, la sua ex-moglie si è rifatta una vita e sua madre è sempre più vecchia. Il lavoro l’ha assorbito completamente, e sente che ora non c’è più tempo per stare con la famiglia. La vita gli è passata attraverso durante tutte quegli anni, e lui non se n’è neppure reso conto.
Mentre guida nella tormenta di neve, tornando dalla casa della madre, Claudio ammette di non aver appreso nulla da quelle vecchie parole. Anche se le ha sempre ritenute sagge e condivisibili, non è riuscito a provi rimedio. Si è reso conto del tempo passato e della stanchezza accumulata soltanto quando è stato cacciato dal lavoro. Quando si è alzato per l’ennesima volta da quel materasso sfondo, con il mal di schiena e le occhiaie profonde.
La neve cade intensamente sulle strade di Siena. I fari delle macchine sono pallidi bagliori in mezzo alla tormenta, mentre le ombre schizzano via tra i palazzi senza una forma precisa.
La macchina di Claudio sobbalza all’improvviso. Un urto, una sbandata. Claudio si sente mancare il respiro.
Capisce di aver urtato qualcosa. Accosta la macchina e si ferma. Guarda dallo specchietto, ma non vede niente: la neve ricopre le strade di San Miniato e i lampioni sono rotti.
Si stringe nel suo cappotto ed esce. I fiocchi di neve lo colpiscono in volto: neve gelida, dura e impietosa. Non riesce a vedere più in là di qualche metro. Una chiazza scura si muove vicino al luogo dell’incidente: Claudio riconosce un gatto tigrato che arranca lungo il marciapiede.
Il gatto prosegue fino al porticato più vicino, poi si accuccia sotto una panchina. Claudio si china a terra e allunga la mano per prenderlo. Il gatto non soffia, nè tenta di graffiarlo; tuttavia, sfugge nervosamente alla sua presa. Claudio tenta nuovamente, ma il gatto trotta via fino a un sottoscala. Si rannicchia in disparte, senza emettere un verso.
Claudio lo lascia stare. La sua macchina è a posto: il paraurti non è ammaccato, solo la gomma anteriore ha colpito l’animale. Claudio si accorge della chiazza di sangue sul marciapiede, ormai scomparsa in mezzo alla neve. Vede gli occhi del gatto che brillano nell’oscurità, e capisce.
Morire in disparte, con dignità. Attendere appartati la propria fine, rifiutare ogni aiuto inutile: questo è ciò che sta facendo quel gatto, e ciò che resta da fare a coloro che sono stati colpiti dal peso degli anni, incapaci di trovare un vero riposo.
La tempesta di neve imperversa per tutta la città. Due barboni dormono in un angolo, tra stracci e cartoni, cercando riparo nell’atrio di una fabbrica abbandonata. Le luci di Natale lampeggiano sulle terrazze dei condomini. Claudio torna in macchina e guida verso casa.

Capitolo 10
L’Ispettore Martini accetta la sua sorte e riceve il dono del conforto.


Solo un giorno come tanti al bar di Nadia. Ma è la vigilia di Natale del 1995 e i festoni addobbano il bancone, mentre le cameriere gironzolano con i cappellini rossi e gli orecchini a forma di stella cometa.
Claudio beve il suo caffè in un tavolino in disparte. Le canzoncine natalizie diffuse alla radio sono un ronzio fastidioso in sottofondo.
“Perlomeno a Capodanno! Che ne dici?” chiede Giuseppe, strizzando l’occhio.
“Ho di meglio da fare.” risponde Nadia.
“E dai. Non lo dice anche il tuo oroscopo? Non ti consiglia di dare una possibilità all’amore?”
“È proprio per questo che vado a far festa senza di te!”
Giuseppe sospira, mentre la bella barista dai capelli rossi se ne va dietro al bancone. Claudio cerca una sigaretta in fondo al pacchetto.
“Non ditemi che dovrò passare le feste da solo.” si lamenta Giuseppe.
“E Giorgia?”
“È tornata a vivere dalla madre. Non era niente di serio.”
“Per lei o per te?”
“Non lo so. Per entrambi, forse.”
Claudio si accende una sigaretta. Giuseppe tiene gli occhi bassi e gioca con il cucchiaino del caffè.
“Le donne sono la nostra rovina. – dice, dopo qualche secondo – Dovremmo imparare a goderci la vita senza di loro.”
“Questo è un altro dei tuoi sogni notturni?”
“Sì. A volte ci penso. Mi sforzo di crederci. Ma poi…”
“Cosa?”
Giuseppe scrolla le spalle.
“Niente. Sono solo pensieri. Mi rendo conto che è impossibile. Come si fa a vivere da soli? Non è possibile. Non è nemmeno giusto. La vita non è fatta per stare da soli.”
Claudio annuisce, soffiando un’ampia boccata di fumo. Quindi tira fuori un cesto di salumi e formaggi dalla busta che aveva messo sotto il tavolo.
“Che cos’è?” chiede Giuseppe.
“Un regalo di Natale. Per te.”
Giuseppe sorride, tradendo un certo imbarazzo. Poi torna a rattristarsi.
“Grazie. Non dovevi.”
“Un regalo per un amico.”
“Salumi di cinta? – dice Giuseppe, ispezionando il cesto – Guarda che buoni! E le salsicce del Belli. Ottime!”
“Ne ho fatto uno anche per gli altri. Ma non mi va di portarlo in questura.”
“Dovresti portarlo, invece. È un bel regalo.”
“Magari lo porto dopo la Befana. Per festeggiare la pensione.”
“Già. Dovresti.”
È un regalo banale, forse. Claudio lo riconosce. Come sempre, non è bravo a scegliere i regali. I cesti coi salumi sono un dono sempre gradito dalle famiglie e dai parenti. Ma dagli amici? Non conosce abbastanza i loro gusti per scegliere dei regali adeguati. Quindi, si limita ai regali banali.
Ha passato tutto il pomeriggio precedente a comprare i regali di Natale. Per la madre, la figlia e la ex-moglie ha preso tre bottiglie di vino pregiato: un Chianti, un Brunello e un Nobile di Montepulciano. Tre vini pregiati in altrettante confezioni natalizie. I pacchetti sono semplici e ben curati, perchè li ha fatti la commessa. Ha fatto scrivere a lei anche i biglietti d’auguri, perchè Claudio ha una pessima calligrafia. Regalo costosi, insomma, ma fin troppo anonimi.
Giuseppe si alza in piedi, scuotendo l’amico dai suoi pensieri.
“Adesso vado al lavoro. Non voglio fare ritardi.”
“Già. Non è il caso.”
“Beato te che sei in pensione! Almeno puoi stare tutto il giorno con Nadia!”
“Come se tu lavorassi! Stai tutto il giorno a dormire sul divano, scommetto!” scherza la barista.
Claudio sorride. Giuseppe gli stringe la mano e poi lo abbraccia, augurandogli buon Natale. Quindi esce dal bar, accompagnato dalle canzoncine natalizie.
Claudio torna a sedere al tavolo. Allontana la tazzina e spegne il mozzicone nel posacenere. Come si aspettava, Giuseppe non ha affrontato l’argomento che più gli stava a cuore. Ormai non fa più parte della questura, ormai non viene più informato sulle indagini in corso.
Torna a sfogliare il giornale. Dopo le notizie sulle vetrine addobbate e sui dolci natalizi, raggiunge le pagine dedicate alla cronaca locale. L’arresto di Luca, agente di polizia, sconvolge la questura di Siena. Accusato di essere il tramite con la malavita albanese, di aver venduto informazioni riservate ai boss mafiosi e di aver messo a rischio la vita dei suoi colleghi. Arrestato e processato per direttissima.
Claudio non sa cosa ci sia dietro. Non avrebbe mai sospettato di Luca, che si faceva ore e ore di pattuglie assieme a Giorgia per tutti i quartieri di Siena. Eppure era accusato di essere la talpa che il capo stava cercando.
Claudio cerca un’altra sigaretta, mentre fissa la fotografia di Luca. Alto, barba incolta, espressione corrucciata. Forse è proprio lui la talpa. Oppure, anche il suo arresto fa parte del complotto di Angelo, al pari dell’allontanamento di Claudio. Le sue indagini sono bloccate per sempre. Non saprà mai che cosa succede dentro gli uffici della questura. Non saprà mai se Angelo e gli altri svolgono indagini serie e rigorose, sacrificando le loro vite private per il raggiungimento della verità.
Claudio non sa se i suoi colleghi saranno mai alla sua altezza. Non sa neppure se abbia agito correttamente, dedicando la sua intera vita al lavoro. Ma non gli interessa più.
Si accende l’ennesima sigaretta, continuando a fissare la fotografia di Luca in manette. Non sa come andrà a finire quel caso. Forse non ci sarà mai verità, forse non ci sarà mai giustizia. Anzi, probabilmente non ci sarà mai nessuna giustizia, in nessuna indagine. Ma, per la prima volta nella sua vita, non gli interessa più.

 

Claudio Martini, ispettore della questura di Siena, è seduto nella poltrona della sua abitazione. L’orologio alla parete ticchetta stancamente.
Claudio alterna un sorso di grappa a una boccata di fumo. Osserva i tetti imbancati fuori dalla finestra, le luminarie intermittenti e i festoni colorati. I fiocchi di neve cadono lenti e soffici, in quella fredda notte di Natale. Claudio ha provato ad accendere il camino, ma non ci è riuscito. Dopo un’occhiataccia ai fogli bruciati e alla cappa otturata, ha acceso i termosifoni.
È una notte fredda, ma felice. Il Natale è una festa che scalda i cuori e che unisce le famiglie. Claudio non si sente triste, anche se è da solo. Sente che può finalmente riposarsi. Sente che può finalmente essere felice.
Ha passato tutta la giornata nella sua casa, come non faceva da tempo. Ha osservato le vecchie foto, ha rispolverato i vecchi ricordi, ha stappato quella vecchia grappa che teneva in cantina. E adesso osserva in silenzio i tetti innevati della sua città, rasserenato.
Sa di aver dedicato troppo tempo alle ultimi indagini. La rissa, il banchiere, la cartomante, la prigione, la guerra tra bande… forse non c’è una soluzione a tutte quelle vicende. Forse non ci sarà mai. O forse è la soluzione più semplice, che lui non riesce ad accettare. Claudio non lo sa e non gli importa. Ha sacrificato fin troppo alla ricerca della verità e della giustizia. Ha sacrificato fin troppo al suo suo lavoro. Adesso si merita la pensione. Il risposo, il conforto, la pace.
Claudio assapora una lunga boccata di fumo. L’ultima. Poi spegne il mozzicone nel posacenere. Basta sacrifici. Adesso è il tempo del riposo. Senza dubbi, nè paranoie, nè deliri complottistici. E, soprattutto, senza rimorsi.
La donna cammina lentamente verso di lui. Ha una camminata elegante, sinuosa, femminile. Si ferma di fianco alla sua poltrona. Claudio prova una sensazione strana, che non riesce a definire. Ma si sente al tempo stesso sereno e confortato. Gli sembra di conoscere quella donna da sempre, gli sembra di aspettarla da sempre.
La donna si china su di lui. Ha degli splendidi capelli corvini raccolti in una coda, con delle ciocche che cadono su un viso pallido e ben definito. I suoi occhi sono velati di tristezza, di una compassione antica. È l’infermiera della prigione di San Gimignano, con una scatola di barbiturici e una siringa nel taschino. Sembra proprio lei. Claudio non sa cosa dire. È bellissima. Non aveva mai compreso quanto potesse essere bella.
Lei sorride. Un sorriso lieve, appena accennato. È un sorriso di pietà? Di scherno? O è un sorriso saggio, l’accettazione di una necessità? Claudio non lo sa. Non è mai stato bravo a capire gli altri. Abbozza a sua volta un sorriso.
Lei è vicina. Così vicina. E così bella.
È l’infermiera della prigione. Ma sembra anche sua figlia. E sua madre. E la sua ex-moglie. Sembra tutte queste figure, una sopra l’altra. Una dentro l’altra. Tutte con un accenno di sorriso, tutte con una promessa di conforto.
E allora niente più lotte, niente più sacrifici. Era inerzia, ciò che lo tratteneva al lavoro e gli impediva di accettare la pensione. Una lenta agonia, l’inutile attaccamento di un vecchio che si rifiuta di lasciare spazio al nuovo.
Eccolo, l’omicidio senza movente. Eccolo, il crimine che non è crimine. La donna che è su di lui, e lui che accetta il dono di pace. Il suo gesto non è dovuto alla debolezza o all’impossibilità di essere felice. Non è un sacrificio orientato al raggiungimento della verità o della giustizia. Tutt’altro. Non è una sconfitta, ma una vittoria. Claudio non aveva mai compreso la forza di quel gesto, di quell’abbandono che era una forma di dono. La vera misericordia. La santa misericordia.
Lei lo tocca. Un tocco lieve, caldo e gentile. Un tocco che è una carezza, un gesto di conforto. Claudio può finalmente riposare. Chiude gli occhi, percè è un dono che accetta volentieri. Sorride.
L’orologio ticchetta stancamente in una stanza buia. Claudio Martini, ispettore della questura di Siena, muore nella sua abitazione durante la notte di Natale del 1995.

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